Archivi del mese: aprile 2011

Chris Ware ricorda Bill Blackbeard

di Andrea Queirolo

Bill Blackbeard (1926-2011)

Saggista, scrittore, editore, fondatore della San Francisco Academy of Comic Art, ma sopratutto uno dei più importanti collezionisti e conoscitori di strisce mai esistiti. Bill Blackbeard è morto il 10 marzo scorso, ma la notizia è stata data solo in questi giorni.
Così se ne va colui che più di tutti ha preservato e fatto arrivare ai giorni nostri tutte quelle storie che solo ora innalziamo sul piedistallo e le classifichiamo come capolavori.
Negli anni ’60 scoprì che le biblioteche stavano mandando al macero i quotidiani dopo averli passati su microfilm e allora capì il pericolo che stavano correndo le strisce: sarebbe finite presto dimenticate.
Alla sua richiesta di poter avere i giornali che venivano buttati via le biblioteche risposero che potevano essere donati solo ad una istituzione.
Fu così che Blackbeard fondò la San Francisco Academy of Comic Art e cominciò quel lavoro di preservazione che portò avanti per più di cinquant’anni.
Ricordato per aver ridato splendore alle strisce con il suo lavoro più famoso, l’antologia  Smithsonian Book of Newspaper Comics (solo una delle centinaia di pubblicazioni cui ha messo mano), Blackbeard ci ha lasciato in eredità un patrimonio che va ancora largamente riscoperto.

Di seguito come lo ricorda Chris Ware:

Da studente universitario e aspirante fumettista, il libro più spesso aperto sul mio tavolo da disegno è stato il pesante Smithsonian Book of Newspaper Comics di Blackbeard and Williams. Per anni sono stato indotto a credere da vari appassionati di fumetto che l’apice del successo del medium fossero stati i libri della EC degli anni 1950, ma dopo aver scoperto l’antologia Smithsonian, è diventato fin troppo chiaro per me come i veri geni originali del mezzo siano stati i disegnatori pre-cinema dei supplenti domenicali usa e getta di mezzo secolo prima. Come un  testo di storia generale, il libro bilancia in parti uguali una necessaria inclusività a tutto tondo con una raffinatezza estetica altrimenti leggermente insistente, come un funambolico atto di cura: riporta tutto, pur consentendo ai grandi di risaltare. Se la scelta di un paio di esempi rappresentativi di Krazy Kat e Little Nemo è già abbastanza difficile, cosa ne dite dell’introdurre Gasoline Alley e Polly and Her Pals ad un pubblico nuovo, per non parlare dello scoprire i lavori sconosciuti di George Luks e Lyonel Feininger? Ancora meglio, le strisce sono state presentate in un formato adeguato, ampio e a colori che al tempo deve essere stato straordinariamente costoso, ma che ha permesso alle loro composizioni complesse ed intricate di essere veramente riapprezzate; le precedenti ristampe miravano a compattare il testo come in un elenco, amputando le singole vignette e congelandole in bianco e nero, come fossero poco più che piccoli souvenirs di un’ingeniutà sorpassata a cavallo del 19 e 20 secolo. (Per inciso, uno dei motivi per cui ho accettato di progettare la serie di “Krazy e Ignatz” è stato che il Sig. Blackbeard era il suo editor, ed essere invitati a contribuire l’ho considerato un onore personale.) Dedicando la sua vita alla conservazione e alla localizzazione di questi supplementi e pagine quasi estinte, Bill Blackbeard ha salvato un’arte americana dal pericolo di certi uomini spazzatura, dai bibliotecari e dalla luce ultravioletta in modo che noi, le generazioni a venire, possiamo apprezzare la loro strepitosa bellezza, poco attraente e senza pretese. La striscia può essere stata usa e getta, ma il contributo della fondazione Bill Blackbeard per la comprensione di essa come arte è stato, e sarà sempre, senza tempo.

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Link al post originale

Una piccola veduta delle 75 tonnellate di quotidiani raccolti negli anni da Blackbeard.

Insuperabile

Iniziamo una collaborazione col blog The Panelist, dove pubblicano fra gli altri alcuni critici americani che ben conosciamo: Craig Fischer e Charles Hatfield.
Proporremo inizialmente i piccoli post domenicali di Craig Fischer, i cosiddetti Off-Panel, dove vengono riportate citazioni significative sul mondo del fumetto.

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Insuperabile
di Baru

traduzione di Danilo Guarino


Il suo nome era Jean-Marc Reiser, ed era un genio. Personalmente, lo considero come il genio dei fumetti.
Descriveva il mondo con dei feroci piccoli disegni, quasi dei graffiti.
Mi convinse che anche io potevo narrare quello che pensavo del mondo con i fumetti, tutto questo perché i suoi disegni sembravano facili da realizzare.
Iniziai a disegnare, come autodidatta, perché ovviamente non sapevo come disegnare, cercando di fare il meglio che potevo per imitarlo.
Naturalmente, mi resi subito conto di come sotto la sua semplicità lo stile di Reiser fosse in realtà ipersofisticato, inimitabile in ogni caso, e senza dubbio insuperabile. Reiser potrebbe essere paragonato nei fumetti a quello che è stato Jimi Hendrix per la chitarra elettrica.

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Link originale dell’articolo.

Baru, da “The Working Class and Comics: A French Cartoonist’s Perspective,” un saggio contenuto nell’antologia History and Politics in French-Language Comics and Graphic Novels (editata da Mark McKinneyUniversity Press of Mississippi, 2008), pagine 241-242.

Clowes sul termine “graphic novel”

di Andrea Queirolo

Hai detto che non ti importa molto del termine “graphic novel”.

Ho pensato che non avrebbe mai preso piede. E’ un termine tremendo. Non sono romanzi, la maggior parte di loro sono memorie, infatti. “Graphic” implica un romanzo illustrato, che non è quello che è. Ho pensato che la gente avrebbe detto: “E’ un fumetto, perché stai cercando di fregarci?”. Invece ha funzionato: “Graphic Novels” ora significa qualcosa di molto specifico. La gente sente queste due parole e le associa ad un tipo di libro che è generalmente adeguato. Mi arrendo, funziona. I ragazzi del branding hanno vinto.

Questo mi ricorda del personaggio in “Ice Haven” che descrive il graphic novel come un “rozzo pseudonimo commerciale”.

Mi sono divertito con quello. L’ho anche chiamato un “assemblaggio di immagine-scrittura”. Quando ho fatto il mio piccolo giro per promuovere il libro, due o tre persone introducendomi hanno esordito: “Tra i suoi molti assemblaggi di immagine-scrittura ci sono Ghost World …” — lo hanno subito preso molto sul serio. Non c’è speranza.

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Tratto da un intervista apparsa su Mother Jones.

Abbiamo parlato di Daniel Clowes anche nei seguenti articoli:

Clowes, intervista su “Wilson”
Appunti su Wilson

Ghost World: “Sei diventata una splendida giovane donna”
Wilson secondo Paul Gravett
Ice Haven: il romanzo a strisce
Dan Clowes al tavolo da disegno
Wally Wood e Daniel Clowes
Modern Cartoonist (il famoso saggio di Clowes tradotto per voi)


Un’intervista a Luciano Bottaro

Ogni persona a New York

di Andrea Queirolo

Curioso questo Jason Polan, un disegnatore che si aggira per New York cercando di ritrarre più gente possibile.
Al MoCCA Festival conclusosi recentemente ha disegnato alcuni fumettisti, mentre sul suo blog potete vedere tutti gli altri “istanti rubati” alla gente di passaggio. Se avete in programma un giro nella Grande Mela, mandate una email a Jason, vi farà un ritratto su appuntamento, o se avete fortuna lo potete incrociare all’angolo fra la quattordicesima e la ottava strada. Lo riconoscere dalla giacca gialla.

Seth e l’ultimo fumetto alternativo

di Andrea Queirolo


Copertina di “Weirdo” #2 del 1981, by Robert Crumb.

Il cosiddetto movimento alternativo fumettistico americano nasce negli anni ottanta sulla scia di quello underground sviluppatosi negli anni sessanta e settanta. Sulle orme di quegli artisti come Robert Crumb e Gilbert Shelton, che avevano rivoluzionato il modo di pensare e fare fumetto, una nuova generazione di autori si impose sulla scena dando vita agli alternative comic-books. Questi perseguivano le tematiche degli underground comix, fatte di droga, sesso e violenza gratuita, ma ampliavano i loro orizzonti verso aperture sperimentali e interazioni con altre culture.
L’esempio più importante è sicuramente Raw, edita da Art Spiegelman e Françoise Mouly, un’antologia che proponeva un approccio “intellettuale” e importava in america autori europei e asiatici. Lo stesso Robert Crumb, capendo che i tempi stavano cambiando, creò Weirdo, un magazine che, differentemente da Raw, manteneva un profilo più basso e proponeva le nuove invenzioni dei vecchi compari di Crumb affiancante a quelle di giovani autori emergenti. Queste riviste sono state il trampolino di lancio del fumetto alternativo che normalmente oggi viene definito come quello che si contrappone al fumetto supereroistico, e spesso identificato come fumetto indipendente o autoriale.
Fra gli autori più conosciuti di questo panorama troviamo: Dan Clowes, Chris Ware, Chester Brown, Peter Bagge, Seth, Joe Matt, Jessica Abel, Ivan Brunetti, Kaz, Charles Burns, Julie Doucet, Anders Nilsen, ecc…
Fra le case editrici che si sono fatte promotrici di questo movimento la Fantagraphics è sicuramente il punto di riferimento e quella che può vantare il maggior numero di serie pubblicate fra le quali voglio ricordare la più longeva ed importante che è sicuramente Love & Rockets dei fratelli Hernandez.


Copertina di “Love & Rockets” #21 (1987), by Gilbert Hernandez.

Ciò che accomuna questo movimento è la pubblicazione delle storie in formato comic-book (a volte autoprodotti), ma oggi, dopo quarant’anni e dopo tutti i cambiamenti che ha attraversato il business, Seth, uno dei maggiori esponenti di questa espressione, ha probabilmente messo la parola fine a questa grande e significativa cavalcata del fumetto americano.
Col ventesimo volume la sua serie Palookavile passa dal formato comic-book al formato volume cartonato, ampliandone la foliazione e i contenuti, ma soprattutto nello scrivere l’introduzione, Seth spiega la sua scelta e chiude un ciclo:

Benvenuti al nuovo Palookaville
di Seth

traduzione di Andrea Queirolo

Copertina di “Palookaville” #20 (2010), by Seth.

Esattamente quasi un anno fa, ho ricevuto una email dal Capo (della D&Q Chirs Oliveros) con la seguente domanda: “Cosa ne pensi dell’idea di prendere “Palookaville” e trasformarlo in formato libro semi-annuale, simile ad Acme e Love & Rockets?”
Non ero sicuro di cosa pensare. Era una domanda spiazzante. Tuttavia non avrebbe dovuto esserlo. Me la sarei dovuta aspettare. Intendo, dovevo immaginare cosa stava succedendo.

Anche se alla D+Q non mi informo mai riguardo le vendite, mi sembrava chiaro che probabilmente il formato comic-book di Palookaville non stava rendendo più alcun profitto. Infatti avevo notato che per gli ultimi numeri avevo ricevuto una risma abbastanza striminzita di “copie per l’autore”. Con Palookaville #18 chiesi addirittura più copie ma mi dissero che non ne avevano altre. Non fui abbastanza pazzo da intendere ciò come segno del successo – che le stavano vendendo così velocemente da averle esaurite. Ipotizzai invece che ora ne stavano stampando meno.

Seth, autoritratto.

Non è che non fossi consapevole del fatto che il formato comic-book stesse arrivando a una fine. Si è verificato un cambiamento (quest’ultima decade) nella vendita dei comic-book e la gente, semplicemente, non stava più comprando i comic-book “alternativi” – piuttosto stavano aspettando la raccolta in volume. I libri erano il “salutare modello del business” corrente. I libri sono quelli che vendono. Nel mio cuore sapevo che il Capo stava stampando il comic-book per farmi un favore. E so che se glielo avessi chiesto avrebbe continuato a farlo. Lui è una persona gentile, leale e questo lo apprezzo.

Ero straziato. Ho un sincero e perenne amore per il vecchio formato ad albo dei fumetti. Ci sono cresciuto, ed è il più semplice, sobrio e modesto formato che tu possa inventare. Ha così tante piacevoli interazioni. Ho sempre creduto che avrei continuato a pubblicare Palookaville come un comic-book per il resto della mia vita. Mi piacerebbe l’idea di avere cinquanta numeri del mio comic-book (anche se da come sto andando a rilento, al cinquantesimo numero sarei un uomo molto anziano).

La domanda del capo mi ha risvegliato e fatto ragionare – tutti i grandi fumetti alternativi erano conclusi (per un’ampia varietà di ragioni). Hate, Yummy Fur, Eightball, Yahoo, Dirty Plotte, Peepshow, Jim/Frank…erano tutti svaniti. Anche Love and Rockets si era trasformato in un grosso magazine brossurato. Solo Optic Nerve sembrava avere la forza di andare avanti. Non avevo realmente realizzato che tipo di razza morente eravamo. Ora stavo gettando la spugna anche io? Abbandonare il formato sembrava il piccolo tradimento di qualche cosa.

Particolare da “Palookaville” #20.

Ad essere onesti comunque, non avevo esattamente usato il formato comic-book per il suo più grande vantaggio. Forse i comic-books funzionano meglio quando sono storie indipendenti – che si esauriscono in un singolo numero. O forse funzionano meglio quando escono più di una volta all’anno! La maggior parte della durata di Palookaville, l’avevo usata per serializzare i miei “graphic novels”. E’ difficile creare una storia lunga tutta in un colpo solo e farla uscire un poco alla volta era il metodo che per me funzionava meglio. C’era un’epoca in cui i lettori di fumetti erano maggiormente disposti a procedere con questo approccio – seguendo lentamente la tua storia interminabilmente lunga finché non fosse finita. In seguito avrebbero anche comprato la raccolta in volume. Apprezzavo anche questo, ma credo proprio che quei giorni siano finiti.

Così ho riflettuto sull’offerta del Capo. E più ci pensavo, più mi piaceva. Invece di abbandonare il comic-book mi stavo concentrando su un formato che probabilmente c’entrava di più con quello che stavo facendo. Mi sono ricordato dei vecchi, meravigliosi tomi periodici del passato – American Heritage, il magazine di Horizon, quell’incredibile annurio di Flair, il Weekend Book del 1925…e il Saturday Book. Ah, il Saturday Book. Un volume annuale che conteneva un’abbondanza di cultura highbrow, middlebrow e lowbrow, pubblicato dal 1941 al 1975. Un oggetto meraviglioso. Il libro perfetto per donne antiquate e uomini di mezz’età. Io posseggo ogni volume.

“Saturday Book” #12 (1952).

Si, un periodico rilegato dovrebbe essere il formato ideale per presentare la varietà delle mie attività artistiche. Potrei pubblicare disegni presi dai miei sketchbooks, scrivere articoli, mostrare gli oggetti che ho creato e anche intervistare qualcuno se lo desidero. Potrei continuare a serializzare storie lunghe e allo stesso tempo offrire al mio pubblico lavori indipendenti che possono rendere l’intero affare più appetibile al lettore casuale. In effetti, il meno vincolante numero di pagine mi consentirebbe anche, in realtà, di presentare una porzione di storia più ampia. Con queste premesse sembra che Clyde Fans volgerà al termine in soli due volumi di questo nuovo formato. Sospetto che questo stesso cambiamento influenzerà il nome della mia prossima storia.

Così, tanti saluti formato comic-book. E’ stato bello conoscerti. Ti lascio senza rimpianti. E per quanto io (da vecchio anacronistico che sono) odio pronunciare queste parole: “Benvenuti lettori all’inizio di una nuova era.”.

Seth mentre dedica il suo volume “George Sprott”, che sarà pubblicato a giugno in Italia da Bao Publishing.

Il paradosso del fumetto che non paga

di Andrea Queirolo

George Bates e la sua visione del fumettista.

Fare fumetti non mi ha mai dato da vivere. Fu come sceneggiatore [di film] che mi guadagnai da campare.
I fumettisti non sono mai stati pagati tanto, ma negli anni ’60  niente costava tanto, così loro potevano vivere bene. Ora continuano a non essere pagati molto, e tutto è molto costoso.

Cosi dice il grande Jules Feiffer che, quando cominciò a collaborare con il Village Voice nel 1956, non fu pagato per anni; e così comincia questo articolo del Village Voice intitolato: “Se i fumetti sono così importanti, perché non pagano?”

Un articolo interessante che si interroga sul perché l’industria americana del fumetto, in particolar modo quella indipendente, sia così importante e affermata, ma allo stesso tempo poco proficua per gli artisti che vi contribuiscono.
In effetti, la sovraesposizione del termine graphic novel e il suo sapersi ritagliare una significativa fetta di mercato; l’esplosione al cinema dei film tratti da serie fumettistiche; l’introduzione delle tavole originali nei musei e il mercato sempre più in crescita fra i collezionisti; le fiere e le manifestazioni sempre più numerose e sempre più ricche di eventi e di partecipanti, farebbero pensare ad un business sano e fiorente, ma così purtroppo non è.


John Kovaleski, un autore di “Mad”, contribuisce all’articolo del Village Voice.

L’articolo del Village Voice è zeppo di testimonianze di artisti che ammettono di non riuscire a campare di solo fumetto: da Tony Millionare a Jessica Abel, da Kaz a Ted Rall, e solo per citarne alcuni.
Il nocciolo della questione è che molti fumettisti, anche quelli più affermati, sono obbligati a lavorare in altri campi.
L’articolo non offre particolari riflessioni su eventuali soluzioni, ma si limita a riportare testimonianze e casi. Sostanzialmente niente di nuovo sotto il sole, ma solo una situazione che via via diventa sempre più formale. D’altronde il settore dei comic book, o se vogliamo commerciale, negli ultimi anni ha subito pesanti flessioni e le testate più importanti continuano a vivere di costanti rilanci. Le stesse strisce sindacate hanno sempre meno spazio a disposizione sui quotidiani, e anche le avventure più famose e longeve sono state cassate (Little Orphan Annie), mentre altre vengono rinnovate fra l’indifferenza generale (Dick Tracy). Solo il settore dei volumi, grazie sopratutto al fenomeno graphic novel, sembra essere costante, ma sono pochi i casi di bestsellers, o meglio di longsellers (Bone, Scott Pilgrim).

Ora, è paradossale il fatto che il Village Voice abbia in programma un numero speciale dedicato ai fumetti, e che abbia annunciato di non voler retribuire alcuni autori. Strano ma vero, sembrava proprio essere così, senonché Tony Ortega, l’editore del giornale, probabilmente messo alle strette ha dichiarato che alla fine pagherà il compenso a tutti:

Volevo avere un grande numero speciale sui fumetti, ma avevo un budget limitato. Quindi, intenzionato a sforzarmi di fare questo lavoro, ho chiesto ad alcuni disegnatori di fornire le pagine senza compenso. Negli ultimi due giorni, mi è stato fatto notare molto chiaramente che questo non era il modo migliore per aiutare l’industria del fumetto. Il fatto è che non siamo una società che si aspetta che la gente lavori gratis per mettersi in mostra. Allora lo sto facendo nel modo giusto: sto pagando tutti gli artisti del numero speciale.
E spero di comprargli delle birre e di lavorare ancora con loro molto presto.

Tony Ortega
Editor
The Village Voice

Sono situazioni che rasentano il ridicolo e che, con le dinamiche appropriate, fanno capire come tristemente tutto il mondo è paese.

La copertina del numero speciale del “Village Voice” dedicato ai fumetti.

Jacovitti: sessant’anni di surrealismo a fumetti Parte 3

“Gufo bianco”, uno Jacovitti quasi sconosciuto dal rarissimo “Argentovivo!” terza versione del Dopoguerra (1951)

Terza e ultima parte dell’estratto dal libro su Jacovitti, edito da Nicola Pesce Editore, che ringrazio per averci dato la possibilità di pubblicarlo.
Il volume, Jacovitti: Sessant’anni Di Surrealismo A Fumetti, scritto da alcuni fra i più riconosciuti critici italiani (Franco Bellacci, Luca BoschiLeonardo Gori e Andrea Sani), si presenta come il saggio definitivo sull’autore. Con più di 350 pagine di ricerca storica, approfondimenti e critica, con una lunga intervista al Maestro e un’estesa bibliografia, il libro deve essere assolutamente in possesso di ogni appassionato di fumetto.
Potete acquistare l’edizione sul sito dell’editore o su ibs.

Leggi la prima parte.
Leggi la seconda parte.

Dagli esordi al Vittorioso Parte 3

“Alì Babà e i quaranta ladroni” (1942)

1.3.Tempo di guerra

1.3.1. Vietato fumettare

Le prime storie di Jacovitti, per quanto oggi possano sembrare rozze e immature, riscuotono al loro apparire un immediato successo di pubblico. E in un certo senso hanno persino una notevole fortuna “critica”: le alte gerarchie del “Vittorioso”, infatti, dimostrando di intuire appieno le grandi potenzialità del giovanissimo autore, lo accolgono subito fra le “colonne portanti” del “Sempre + bello”, come ama autodefinirsi il giornale romano. Le lodi per Jacovitti, nei vari redazionali, sono all’ordine del giorno, e il creatore dei “3P” è incaricato anche di disegnare i vari fregide corativi e alcune tavole di riempitivo. Anzi, dall’aprile del 1942, la redazione del “Vittorioso” gli offre un’opportunità straordinaria, mai proposta fino ad allora a un autore esordiente. Oltre a proseguire la consueta serie di Pippo, Pertica e Palla (una mezza tavola, in nero, nelle pagine interne), all’autore termolese viene affidata addirittura la prestigiosa ultima pagina del giornale, tutta a colori.È una decisione sorprendente: la struttura del tipico “giornale” a fumetti, in questo periodo, prevede da otto a sedici grandissime pagine, ognuna appannaggio di un autore. In quelle più prestigiose e a colori sono pubblicati da sempre “cineromanzi” avventurosi di ambientazione fantascientifica o esotica, con un disegno elaborato e pieno, diremmo oggi, di “effetti speciali”. Non sembra proprio, quella del giovanissimo e inesperto Jac, una scelta ideale, da parte della redazione. Ma Jacovitti affronta la sfida con disinvoltura: per la storia d’esordio, invece di insistere coi temi “quotidiani” dei “3P”, sceglie un’ambientazione esotica e una trama di ampio respiro, sfruttando al meglio il formato molto maggiore della tavola e la presenza del colore. La scelta cade su una celebre favola orientale, Alì Babà e i quaranta ladroni, che Jac inizia a trasporre a fumetti in chiave umoristica: almeno all’inizio, il tono è indubbiamente giocoso, ma lo svolgimento e la morale della fiaba originale vengono sostanzialmente rispettati. Il disegno di Jac, per il momento, non cambia affatto. Le vignette sono enormemente dilatate, gli sfondi – con un presumibile, durissimo tour de force – resi “architettonicamente appetibili”, ma resta immutato il segno naïf, che soffre un po’ dell’adattamento forzato all’esotismo spettacolare della favola. La redazione da dunque piena fiducia a Jacovitti: l’intelligenza, la creatività e l’entusiasmo del nostro autore ci sono già; la tecnica grafica arriverà certamente in seguito. Jac non delude la fiducia dei redattori del “Vittorioso”: il super lavoro che si sobbarca lo porta a sperimentare varie tecniche grafiche, e ben presto il non ancora ventenne autore è padrone assoluto della mezza tinta come del tratteggio. Ma Jacovitti si dimostra anche intelligente e pieno di risorse, di fronte alla stretta che tutti i periodici, dopo il primo anno di guerra, devono subire. Proprio nei primissimi mesi del 1942, infatti, tutti i giornali a fumetti italiani devono adeguarsi a un infelice provvedimento del Ministero della Cultura Popolare (il Minculpop di triste memoria), che va a sommarsi ai draconiani decreti già attivi nel 1938, quando, come si è detto, era scattato l’embargo per i comics americani. Lo scopo dichiarato è di scardinare il linguaggio del nuovo mezzo d’espressione, le “storie a quadretti”, considerate, a prescindere dai contenuti, di gusto e mentalità straniere e quindi “anti-italiane”, poco conformi ai principi educativi sui quali si deve edificare l’“Italiano Nuovo” di Mussolini. Ma probabilmente il motivo è anche quello di togliere sempre più ossigeno alla stampa più o meno indipendente per ragazzi: in quest’ottica, “Il Vittorioso”, sostanziale alleato nel 1938, all’epoca in cui si dà il bando a Gordon e Mandrake, nel 1942 è una voce che se non è ancora fuori dal coro, potrebbe prodursi in qualche sgradita stecca. Stessa considerazione, probabilmente, fanno i censori per “Topolino” e per gli ormai formalmente allineati nerbiniani. Il nuovo provvedimento ministeriale impone agli editori di abolire proprio i fumetti, ovvero i balloons contenenti i dialoghi dei personaggi: si tratta di un’invenzione americana (questa la giustificazione ufficiale del provvedimento) e quindi incompatibile con lo stato di guerra contro le “plutocrazie” occidentali. Gli editori cercano in vari modi di aggirare l’ostacolo, che rappresenta un vero e proprio deterrente alla lettura dei giornali e degli albi. A “Topolino” decidono di spostare i dialoghi nella parte bassa delle vignette, abolendo le “pipe”: un modo come un altro per cambiare tutto senza cambiare niente, nella migliore tradizione italiana. Altri, fra cui purtroppo il “Vittorioso”, aderiscono invece alla lettera del provvedimento: in ogni vignetta viene aggiunto un cartiglio, che comprende nonsolo i dialoghi, ma anche una tautologica descrizione della scena, con pause forzate e inutili ripetizioni. Il solo Jacovitti cerca di destreggiarsi come meglio può, evitando di adeguarsi pedissequamente alle indicazioni redazionali.

Jacovitti, in “Forza Pippo”, evita di adeguarsi pedissequamente alle prescrizioni ministeriali ed elabora un originale linguaggio solo visivo.

Nella storia Forza Pippo, in corso di pubblicazione all’epoca in cui entra in vigore il nuovo provvedimento, l’autore rinuncia in pratica ai fumetti, senza sostituirli con le didascalie, ed escogita una via tutta visuale alla narrazione grafica: qualcosa di simile alla tecnica dell’americano Carl Anderson, il cui eroe Henry, quasi sempremuto, è sporadicamente pubblicato anche in Italia, negli anni Trenta. Ma l’espediente jacovittesco non può reggere indefinitamente, e alla lunga i fumetti del Nostro sono quelli che soffrono di più del cambiamento. Fin dai primissimi episodi, come abbiamo detto, le storie di Pippo e soci si fanno apprezzare per il ritmo fulminante dell’azione e dei dialoghi: tutti elementi incompatibili con le pause imposte dalle verbose didascalie. Inoltre, il provvedimento arriva all’improvviso – con decorrenza immediata – quando già l’autore ha disegnato alcuni episodi, in attesa di essere pubblicati. I redattori del “Vittorioso” sono quindi costretti, per questi ultimi, a un lavoro di adattamento – con forbici e colla – che certo non giova alla qualità delle storie. Alla fine, la necessità di adeguarsi alla nuova tecnica determina fatalmente un cambiamento dello stile narrativo di Jacovitti, che diviene, sia pure in modesta misura, più lento e didascalico, com’è evidente già dalla storia Pippo al circo. Nella successiva Pippo trotta, Jacovitti preferisce rifugiarsi nel puro disegno, senz’altro già definibile barocco, e in pratica, ma solo per il momento, rinuncia al racconto per immagini inteso in senso “americano”, ovvero cinematografico. Nonostante tali novità negative, mentre progredisce nella realizzazione di Alì Babà, Jacovitti prende a deviare sempre più dai toni di una garbata parodia, inserendo nella favola, con frequenza crescente, elementi “destabilizzanti”, che forse rappresentano un primo indizio dell’abitudine jacovittesca di costruire le sceneggiature “a braccio”, su un canovaccio di massima. I protagonisti della classica favola, da un certo punto in poi, ne combinano di tutti i colori, improvvisando in ogni pagina delle sequenze demenziali, solo vagamente ispirate al soggetto originale; fral’altro sembrano passare il tempo a picchiarsi di santa ragione, brandendo ombrelli, frecce, forchettoni e matterelli da cucina. Ma qualcosa di nuovo accade anche agli sfondi delle vignette, che fino ad ora sono rimasti abbastanza spogli e convenzionali. Infatti cominciano ad apparire per terra alcuni oggetti incongruenti, almeno per una favola medievale ambientata in Arabia: soprattutto scatole vuote di sigarette e di cerini, barchette di carta e altra “minutaglia” del genere. In una scena, un protagonista viene premiato dal Sultano per i servigi prestati. Ma i regali sono piuttosto strani: un pacchetto di sigarette, un macinacaffè, una forchetta e… un salame, probabilmente il primo di una lunghissima serie. A tutto ciò si aggiungono alcune timide invenzioni grafiche, che oggi appaiono scontate ma che all’epoca della pubblicazione lo sono molto meno: un personaggio, per esempio, per sottolineare la sorpresa, addirittura salta fuori dai suoi calzari. Sono i primi, timidi segni di una vera e propria rivoluzione, che presto assumerà dei ritmi frenetici, quando Jacovitti comincerà ad esasperare tutte (o quasi) le tradizionali convenzioni dei fumetti.

1.3.2. Cucù: la “svolta” di Jacovitti

L’America di Al Capone in “Cucù” (1942).

All’inizio di novembre del 1942, con la sconfitta di El Alamein, gli italo-tedeschi perdono definitivamente il controllo dell’Africa settentrionale. La clamorosa disfatta non determina la minima flessione nei toni eroici e battaglieri del “Vittorioso”, sebbene al giornale non manchino i “tiepidi” (autori e redattori) e anche gli avversari del regime, come testimonia lo stesso Jacovitti. Apparentemente, la convinzione nell’immancabile vittoria finale non subisce incrinature nemmeno il mese successivo, quando inizia in Russia la tragedia del Don: del resto, Papa Pio XII ha appoggiato la “crociata antibolscevica” fin dal giugno dell’anno precedente. Eppure, che la guerra sia praticamente già persa per le potenze dell’“Asse”, è ormai evidente a molti, benché, prima della completa distruzione della potenza tedesca, debbano ancora passare anni di inenarrabili lutti e rovine per l’Europa. Intanto la guerra si fa sentire in tutta la sua barbarie anche sul territorio italiano: gli Alleati, padroni del cielo, scatenano i loro bombardamenti “tattici”, destinati a fiaccare il morale della popolazione. La guerra non è più fatta solo dai soldati al fronte: muoiono vecchi, donne, bambini. Quelli che verranno accolti come liberatori, due anni dopo, scatenano per ora un inferno di bombe sulle città indifese. Uno di questi bombardamenti, nel novembre del 1942, colpisce Torino, e causa gravi danni anche allo stabilimento dove si realizzano gli impianti del “Vittorioso”. Fra l’altro, va perduta un’intera storia di Craveri, e in via eccezionale il giornale deve uscire a due soli colori. La parte ancora non pubblicata della storia di Jacovitti Pippo al circo (realizzata a mezza tinta) evidentemente viene salvata per miracolo, perché per riprodurre le ultime puntate sono utilizzati impianti scadenti, con pessimi risultati grafici finali. Proprio in un momento tanto drammatico, inizia sul “Vittorioso” la pubblicazione di una nuova storia a colori di Jacovitti, Cucù, che per molti aspetti rappresenta una specie di spartiacque nella sua produzione.

La “visualizzazione delle metafore” in “Cucù” (1942): sculacciate…sonore.

Come molti altri autori, anche Jacovitti ha saggiamente deciso da tempo di abbandonare ogni accenno di propaganda bellica, e perfino qualsiasi riferimento, sia pur vago, alla tragica situazione internazionale: del resto, nelle redazioni dei settimanali, sono giunte anche alcune informali “veline” ministeriali, che consigliano un simile mutamento d’indirizzo. Ma invece di proseguire con le favole classiche in chiave comica, Jacovitti decide di imbarcare il piccolo Cucù e suo zio, un inventore pasticcione ma geniale, in un’avventura di viaggio dai toni surreali, con un itinerario che tocca mezzo mondo. È piuttosto curioso che la prima delle loro tappe sia (in piena guerra!) l’America di Al Capone: l’intento dichiarato è denigratorio, un po’ come nel film Harlem (1943) di Carmine Gallone, girato solo pochi mesi dopo e improntato a un ambiguo antiamericanismo. Ad una lettura superficiale, il viaggio di Cucù sembra genuinamente antiamericano: Jac smitizza gli eroi yankee dell’avventura, da Buffalo Bill a Tom Mixe a Tarzan. Incontrati dalla coppia di viaggiatori, questi miti letterari e cinematografici si rivelano meschini, codardi e impostori. Ma il risultato è opposto: gli occhi dei lettori si imbevono di grandi pianure e di brulicanti metropoli, con la caratteristica skyline dei grattacieli. Al di là della satira bonaria, gli elaboratissimi scenari d’Oltreoceano sono disegnati con tale cura e partecipazione da rivelare con tutta evidenza quanto l’autore – come del resto i suoi lettori – sia sensibile al cosiddetto “mito americano”. D’altra parte, nel crescente caos, anche le maglie censorie del regime nei confronti della cultura made in USA devono essersi un po’ allentate, se, in quello stesso ’42, in casa Bompiani, si può pubblicare tranquillamente la celebre antologia letteraria Americana, zeppa di autori statunitensi tradotti da Elio Vittorini. Ma la vera novità di questa storia jacovittesca è nel disegno, che si fa quasi improvvisamente più maturo, con un uso sapiente del tratteggio a pennino. Inoltre l’episodio propone delle spassose assurdità che anticipano quelle tipiche del dopoguerra: un fantolino, per esempio, si diletta a masticare un piede calzato del genitore, il quale, giustamente, lo sculaccia di santa ragione; ma proprio perché gliele sta “suonando”, il padre costringe un altro dei venti figli (“tutti in tenera età”!) a reggergli davanti lo… spartito musicale! Questo è solo l’inizio di una serie di situazioni balzane: allo zio salta letteralmente la testa in aria per la sorpresa; la mamma porta un cartello con su scritto “Ohimè!” (forse un altro rimedio escogitato da Jac alla mancanza di fumetti); con spassosa compunzione scientifica, viene presentato ai lettori l’improbabile “uccello Carburo della specie dei Gondar”; un pirata “fuochista”, quando spara le cannonate, si tappa le orecchie con due mani prensili artificiali, collocate sopra la testa. E anche il dialogo, per quanto sacrificato dalle prolisse didascalie, comincia a uscire dagli standard del genere umoristico, presentando le prime caratteristiche espressioni jacovittesche: “Orsù, parlate o vi pistoleggio!”; “Corebezzolin, corbezzolone!”; “Lo voglio cadaverizzare!”, e così via.

1.3.3. L’emergenza

“Caramba” (1943), appare la prima lisca di pesce.

Terminato Cucù, “Il Vittorioso” inizia a pubblicare un’altra avventura a colori dell’infaticabile Jacovitti. Stavolta si tratta di una vicenda di cappa e spada, Caramba, ambientata della Spagna del XVII secolo. Per la prima volta, il lanciatissimo autore si impegna in un’interminabile serie di divertissement con la lingua spagnola, che poi riutilizzerà, a intervalli quasi regolari, per tutta la sua restante carriera, fino alla saga di Zorry Kid. Nelle sue tavole, preso da una furibonda foga creativa, Jacovitti accumula invenzioni su invenzioni, fra lo stupore – immaginiamo – sia dei lettori che dei redattori del “Vittorioso”. E per il giornale romano è veramente una fortuna, perché (a parte le delicate favole di Sebastiano Craveri e con la possibile eccezione dei discontinui exploit grafici del combattente Caesar), le uniche cose leggibili della rivista, in questo periodo, sono proprio i capolavori di Jac. I duelli di Caramba sono una vera e propria “pietra miliare” nella storia del fumetto umoristico italiano: venticinque anni dopo, sempre in Zorry Kid, rivedremo gli stessi scontri con i personaggi che si staccano i lunghissimi baffoni a punta per servirsene come spade e infilzare l’avversario. Ma Caramba è importante anche perun altro motivo. Nella grande vignetta con il titolo della prima puntata, appare una stilizzata lisca di pesce; un’altra fa la sua comparsa nella vignetta successiva, oggetto delle interessate attenzioni di un gatto. Andando avanti con la storia, troviamo delle lische un po’ dappertutto: dopo qualche puntata, “sconfinano” anche in Pippo trotta, l’episodio parallelo, in bianco e nero, pubblicato nelle pagine interne del giornale. Sta probabilmente nascendo la futura firma di Jacovitti, derivata – come sostiene l’autore – dal nomignolo che gli amici gli avevano affibbiato a causa della sua particolare magrezza. A parte l’aneddotica, il surreale scheletro ittico simboleggia egregiamente il tono e i contenuti sempre più demenziali delle storie del Maestro termolese, incui fanno capolino anche degli spunti vagamente lugubri. In un’altra sequenza della storia salta fuori, forse per caso, un salame tagliato, mentre si fanno vedere per laprima volta dei personaggi “svenuti”, nelle pose più grottesche, anticipatori di quei morti stecchiti con gli occhi sgranati e le membra rigide che diverranno un altro classico marchio di fabbrica di Jacovitti. Oltre che in Cucù e in Caramba, anche negli episodi “minori”, quelli del ciclo di Pippo e quelli pubblicati sugli albi A.V.E., apparsi durante il 1943, abbondano pregevoli trovate, sia verbali che grafiche. Sono veramente spassose, per esempio, le insegne dei negozi che appaiono a ogni piè sospinto nell’albo Pete lo sceriffo: vi troviamo, naturalmente, il consueto “Sceriffo”, e una più jacovittesca “Vaccheria”, ma anche i demenziali “Come”, “Ma sì”, “Ohimè”, “Agosto”, “Bove”, e perfino un incredibile: “Insomma, Filippo, la vuoi smettere?”. Degno di nota è il bacione che il padrone felice dà (sulla bocca!) al proprio cavallo vittorioso in Pippo trotta, una storia lontanamente ispirata, ancora una volta, al classico Topolino di Piedi dolci, cavallo da corsa (1933). Nella stessa avventura, già assai evoluta sul piano grafico e su quello della sceneggiatura, Jacovitti si permette addirittura un accenno satirico all’enfasi della propaganda fascista, sempre pronta a ridicole e quanto mai retoriche esagerazioni: un giudice di gara, infatti, parlando al microfono durante una premiazione, accenna all’ “…epica bellezza delle gare ippiche, apportatrici di benessere e di civiltà”. Uno sproposito che sta a metà strada fra il nordico nonsense e il sarcasmo italico più terragno. Ma la tarda estate del 1943 non è più stagione adatta ai giornali a fumetti. Il 10 luglio, gli Alleati sbarcano in Sicilia, e quindici giorni dopo il Fascismo crolla miseramente, abbattuto dai suoi stessi gerarchi. Durante i successivi giorni del Governo Badoglio – che mette fuorilegge il partito – “Il Vittorioso” non cambia di una virgola la propria impostazione: all’inizio non viene cancellata nemmeno l’indicazione dell’ “Era Fascista”, scritta accanto alla data. Ma in agosto, dopo l’uscita del numero 25 – in cui inizia Pippo e la pesca, una storia di Jacovitti dal tratto elaboratissimo, denso di tratteggio e quasi realistico – il giornale sparisce dalle edicole. Con i continui bombardamenti aerei, non è certo vantaggioso stampare dei giornali che possono finire in cenere in ogni momento. Comunque, due numeri finali, il 25 e il 26 – oggi rarissimi – sono fatti circolare in quantità limitata, l’ultimo numero addirittura alla fine di dicembre: secondo alcuni storici del fumetto, le copie sarebbero spedite solo agli abbonati. Intanto con l’8 settembre, data della capitolazione italiana, inizia la fase più tragica della guerra: lo stato crolla, e il Re e il Governo fuggono a Sud in braccio agli Alleati (che risalgono la penisola con lentezza esasperante, fra combattimenti sanguinosi e distruzioni colossali); al Nord Mussolini, liberato da Hitler, si mette invece a capo dell’illegale e feroce repubblica di Salò, dando inizio a una terribile guerra civile, mentre i nazisti si abbandonano alle loro stragi efferate. Sembra proprio che l’inferno si sia scatenato sull’Italia.

Una tavola da “Peppino il paladino”

Leggi la prima parte.
Leggi la seconda parte.

L’arte feroce di Magnus

Questa breve intervista a Magnus è tratta da Image n. 6 dell’ottobre 1984 (Glittering Images) e realizzata da Graziano Frediani e Renato Genovese.

Tavola originale da un racconto dello “Sconosciuto”.

Molti non sanno se gli orrori che rappresenti ti affascinano o ti fanno paura.
Il problema non esiste. Io non ho particolari apprensioni verso la violenza, o verso la morte, o verso gli aspetti più tragici della vita.
Ne d’altra parte, ne sono attratto, perché, anzi, la violenza mi colpisce allo stomaco.
Parrà strano ma il mio è solo un esercizio di fantasia, un tentativo di sviluppare un discorso mentale tenebroso senza morbosità.

Come vivevi, da piccolo, la distinzione tra buoni e cattivi?
Ho sempre avuto una particolare simpatia per i cattivi: quando andavo al cinema mi ricordo, sceglievo sempre di identificarmi nelle parti dell’antagonista, mai in quelle dell’eroe.
Facevo, insomma, la parte del diavolo, forse anche per vedere il reprobo giustamente punito. Se, ad esempio, il film era Robin Hood, io mi immedesimavo nello sceriffo di Nottingham e la misera fine che mi aspettava era quella di morire schiacciato sotto un ponte levatoio.

Quindi, non hai grosse frustrazioni nascoste.
Non sono sadico. Non riuscirei a umiliare qualcuno come il Gessler del Gugliemo Tell che mette la mela sulla testa di un bambino; allo stesso tempo, però, mi affascinano di Gessler la ferocia che dimostra e la violenza che ne consegue, per cui lo stesso viene ucciso con una freccia piantata in gola.

Vuoi dire che osservi la scena mantenendo una filosofica distanza?
Si. L’affetto che vediamo è l’atto finale, la cessazione dell’armonia, il punto di conflitto, ma la violenza e la malvagità non sono mai fini a se stesse. Sono il frutto di circostanze particolari, hanno sempre una causa iniziale. Ecco: a me piace indagare su questi intrighi, su questi equivoci di percorso, su questi passi fatali immediatamente precedenti.

Certi disegni, lo ammetterai, non lasciano indifferenti.
È vero, però… Vi ricordate l’episodio dello Sconosciuto in cui si vedono due morti con la testa scoperchiata da un colpo di scure? Beh, dovevo fare una fotocopia del disegno ed andai in un negozio dove già mi conoscevano. Il padrone rimase letteralmente allibito di fronte all’immagine dei due spettri, tant’è che io cominciavo a vergognarmi. Poi chiesi al figlio, un ragazzino: << Sono tanto spaventosi?>>, e lui mi rispose tranquillo: <<Ma no! Sono come Alan Ford>>>.

Anteprima Top Blog Fumetti Wikio di aprile

Riceviamo e pubblichiamo in anteprima la classifica di aprile Top Blog Fumetti e Illustrazione di Wiko.

1 -Dalla Parte di Asso Merrill-
2 Fumettologicamente
3 comicsblog
4 Mamma! Satira e giornalismo
5 Mauro Biani
6 House of Mystery
7 Diegozilla
8 DDComics
9 DonZauker.it
10 Comix Factory
11 Cartoonist Globale
12 vukicblog
13 Storie, disegni e appunti del disegnatore Gipi
14 INSERTO SATIRICO
15 Bilbolbul 2010
16 Flusso di coscienza
17 animals
18 L’Atrìde
19 Canemucco
20 Mulholland Dave
21 Nero_su_bianco
22 Tuono Pettinato
23 Conversazioni sul Fumetto
24 Spari d’inchiostro
25 Rizzoli Lizard
26 Niente trucchi
27 sketchesnatched
28 Verticalismi
29 Humour
30 (sono io che ho aperto questo blog)

Classifica curata da Wikio