Clowes sul termine “graphic novel”

di Andrea Queirolo

Hai detto che non ti importa molto del termine “graphic novel”.

Ho pensato che non avrebbe mai preso piede. E’ un termine tremendo. Non sono romanzi, la maggior parte di loro sono memorie, infatti. “Graphic” implica un romanzo illustrato, che non è quello che è. Ho pensato che la gente avrebbe detto: “E’ un fumetto, perché stai cercando di fregarci?”. Invece ha funzionato: “Graphic Novels” ora significa qualcosa di molto specifico. La gente sente queste due parole e le associa ad un tipo di libro che è generalmente adeguato. Mi arrendo, funziona. I ragazzi del branding hanno vinto.

Questo mi ricorda del personaggio in “Ice Haven” che descrive il graphic novel come un “rozzo pseudonimo commerciale”.

Mi sono divertito con quello. L’ho anche chiamato un “assemblaggio di immagine-scrittura”. Quando ho fatto il mio piccolo giro per promuovere il libro, due o tre persone introducendomi hanno esordito: “Tra i suoi molti assemblaggi di immagine-scrittura ci sono Ghost World …” — lo hanno subito preso molto sul serio. Non c’è speranza.

***

Tratto da un intervista apparsa su Mother Jones.

Abbiamo parlato di Daniel Clowes anche nei seguenti articoli:

Clowes, intervista su “Wilson”
Appunti su Wilson

Ghost World: “Sei diventata una splendida giovane donna”
Wilson secondo Paul Gravett
Ice Haven: il romanzo a strisce
Dan Clowes al tavolo da disegno
Wally Wood e Daniel Clowes
Modern Cartoonist (il famoso saggio di Clowes tradotto per voi)


28 risposte a “Clowes sul termine “graphic novel”

  1. ahahaah! incredibile.
    viva clowes.

  2. Pingback: Appunti su Wilson | Conversazioni sul Fumetto

  3. Pingback: Ice Haven: il romanzo a strisce | Conversazioni sul Fumetto

  4. grande, alla larga dai pecoroni.

  5. alla larga dai pecoroni.

  6. Pingback: Daniel Clowes Modern Cartoonist | Conversazioni sul Fumetto

  7. Grande Clowes, è vero i ragazzi del branding hanno vinto ma io me ne sono fatto una ragione, secondo me il gioco vale la candela.

  8. Pingback: Wally Wood & Dan Clowes | Conversazioni sul Fumetto

  9. Lamentarsi di essere stati presi sul serio ed essere presi sul serio.
    Magari fare uno sforzo in più di comprensione per cercare di interpretare l’ironia non guasterebbe.

  10. non so giacomo, secondo me si lamenta del fatto che si cerca di dare un nome diverso ad una cosa che un nome già ce l’ha. fondamentalmente è rassegnato.
    poi si sa, clowes ha un’ironia tutta sua. 🙂

    andrea

  11. la parola fumetto è bellissima infatti, e Clowes se la merita tutta… per niente dispregiativa soprattutto 🙂

  12. Forse è per via del fatto che mentre qui il termine “fumetto” dice quello che deve dire in modo univoco e specifico, in inglese la parola “comics” ha anche da altre radici.

    Forse è meno “centrata” e appropriata del nostro “fumetto”.

    E’ solo una riflessione. Non saprei.

  13. Il discorso fila.
    Eisner aveva bisogno di un termine diverso da Comics per identificare il suo lavoro. E va benissimo.
    Ma i problemi sono due:

    – ha scelto un termine del cazzo (e i film cosa sono? romanzi con immagini fotografiche in movimento e suoni?)

    – in Italia (come in Francia) non c’era la stessa necessità, quindi non è ben chiaro perché abbiamo dovuto adottare il termine.

    Ma ha ragione Clowes: hanno vinto quelli del branding.

    E se serve a vendere più fumetti, va pure bene.
    Anche se è triste e grottesco.

  14. Magari anche smetterla di intendere tutto solo dal punto di vista dei soldi e della quantità?
    Intercettare, che ne so, un lettore che normalmente storce il naso alla parola fumetto, a me non dispiacerebbe. Magari uno che in genere legge Edgar Foster Wallace, e non Topolino, non so se hai presente, succede. A quel punto sarebbe snobistico continuare ad ostinarsi nel termine fumetto. Dico Wallace per dirne uno recente.
    A me la gente tipo Clowes, che sputa nel piatto dove mangia, mi fa un po’ pena.

  15. Il piatto in cui mangia è il fumetto.

  16. Ma infatti chicazzo se ne frega pure di Wallace, ciài ragione.

  17. Infatti. A chi dovrebbe fregare di Wallace che scriveva romanzi, quando stiamo parlando di fumetti?
    Ai fumettari con il cazzo piccolo, sempre in preda al loro senso di inferiorità nei confronti degli altri medium più blasonati.

  18. Madò, ho trovato il mio nuovo guru: Rrobe, come non capisci un cazzo tu, nessuno, ho ancora troppa da imparare.
    Stavo ampliando il tuo discorso: se togli la questione “soldi” resta il fatto che magari a me, come ad altri, non mi fa schifo far leggere i fumetti a gente nuova, e ti assicuro che ce n’è. Buon proseguimento

  19. I libri si fanno perché vengano letti. Se il prezzo è cambiare la parola fumetto in graphic novel, va bene. Magari è un triste vedere che nel 2011 dobbiamo dimenticarci l’italiano per dare un nome a qualcosa che i nostro Paese produce da secoli ma è pur vero che il termine fumetto per quanto abbia un suono fichissimo non c’entra una mazza con quello che vuole significare. Il “fumetto” infondo sarebbe il baloon, come se quello di cui stiamo parlando si riducesse a nuvola di fumo che esce dalla bocca di un personaggio. Allora sono fumetti pure le vignette. E i fumetti muti non sono fumetti. Ma questa parola ha permesso a un’arte di avere un mercato, come adesso vale per il termine “graphic novel”.
    Che ci frega. Le cose cambiano e occorre inventarsi sempre nuove strategie per non finire nel dimenticatoio.

    E poi è bello vedere come quest’arte debba sgomitare e ribattezzarsi pur di rompere i coglioni al mondo.

  20. “- ha scelto un termine del cazzo (e i film cosa sono? romanzi con immagini fotografiche in movimento e suoni?)”

    Motion Pictures… 🙂

  21. Edgar Foster Wallace. Bell’esempio.

  22. già…volevo dire hal foster wallace, ovviamente

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