Ripetizioni e cambi temporali nell’opera di Chris Ware

Presentiamo di seguito, col consenso dell’autore, un lungo articolo su Chris Ware ad opera di Thierry Groensteen. Nato a Brussel nel 1957, ha curato il Comics Museum ad Angoulême dal 1993 al 2001. E’ stato anche sceneggiatore e caporedattore di due importanti riviste: Les Cahiers de la bande dessinee e Neuvième Art. E’ il fondatore della società editrice L’An 2, ora un dipartimento del gruppo Actes Sud. Insegna all’ Ecole Européenne Supérieure de l’Image ad Angoulême.
E’ autore di numerosi libri sulla storia, la semiotica e l’estetica del fumetto, che includono: Un objet culturel non identifié (2006) e La Bande dessinée, son histoire et ses maîtres (2009). Il suo Systeme de la bande dessinée (1999) è stato tradotto in diversi paesi, tra i quali gli Stati Uniti (The System of Comics) e Giappone. Pubblica questo mese un nuovo saggio sulla parodia: Parodies: la bande dessinée au second degré (Skira/Flammarion), e prepara una grossa esibizione sullo stesso tema per il Comic Museum, che sarà inaugurata al prossimo festival di Angoulême nel gennaio 2011.

Trasmissione, somiglianza, impermanenza

di Thierry Groensteen

traduzione di Matteo Ardente

Su un aereo che lo porta da un padre che incontrerà per la prima volta, Jimmy Corrigan si fa rimproverare dalla sua vicina, che conclude: ”Immagino che vostro padre sia un poveraccio”
Jimmy saprà ben presto che razza di tipo sia suo padre, ma per ora, ciò che lo preoccupa, è immaginarsi a che cosa possa assomigliare fisicamente.
Ed il nostro antieroe fantastica sull’apparenza del suo genitore.
Dodici vignette si susseguono, rappresentando 12 uomini diversi, inquadrati nella loro identità :12 personaggi senza sguardo (hanno gli occhi celati da una bandana nera), che hanno, chi più chi meno capelli, alcuni con i baffi, occhiali, e che indossano camice, polo, soprabiti o costumi con cravatta. Si potrebbe dire che facciano gli attori. Chi tra questi sarà il più credibile?

Questi uomini discutono: uno stesso discorso, fatto di 11 annunci ed un silenzio, che viene ripartito tra tutti loro. Come se fosse un unico personaggio che parla, ma che muta fisicamente. E di che cosa discutono? Nello specifico, di somiglianza: ”Non mi riconosci? /He, ti avrei riconosciuto a 10 km di distanza, Jimbo/ Ha ha , hai esattamente la faccia che m’immaginavo……”

Estratto da “Jimmy Corrigan”, padre e figlio a confronto.

Più lontano, quando arriva il momento dell’incontro, Jimmy si ritrova faccia a faccia con suo padre, si guardano intensamente in due primi piani muti, disposti in campo-controcampo (queste 2 grandi vignette quadrate sottolineano il pathos, l’intensità di questo momento, rappresentano una divisione del tutto inusuale nell’opera di Crish Ware, giacchè la grande tavola segue di pari una vignetta di dimensioni ridotte) [si sta parlando del taglio che l’autore fa di queste due specifiche tavole, che esulano dalla solita struttura adoperata NTD]
Senza dubbio si pongono loro stessi, nel loro intimo, la medesima riflessione del lettore: vi è tra i due personaggi un’assomiglianza sconcertante. La stessa persona con trent’anni (e altrettanti kg) in più: già Jimmy ha perso gran parte dei suoi capelli, e le rughe si intensificano sui suoi occhi: è sulla buona strada per diventare, poco a poco, il perfetto sosia di suo padre oggi.
Quale significato/i dobbiamo dare a questa sconvolgente rassomiglianza?
Rappresenta, in primo luogo, una sorta di testimonianza tangibile del legame tra i due uomini, una prova genetica; avendo vissuto lontani l’uno dall’altro, sono dei perfetti sconosciuti, eccezion fatta per il sangue che li lega. Questo legame è inappellabile giacché si vedono tra di loro.

Ma il tema dell’identità familiare sarà messo a dura prova un po’ più in la nell’evoluzione della storia, quando Jimmy farà conoscenza della sua sorellastra adottiva, Amy, di origini afro-americane.
Alla sorpresa di avere una sorella, di cui, fino ad allora ne ignorava l’esistenza, si aggiungerà il fatto di dover accettare come membro della sua famiglia, una persona che non gli assomiglia per niente. E senza dubbio ciò porterà facilmente alla nascita di un sentimento incestuoso nei confronti di Amy che Jimmy non potrà nascondere.
Anche se arriva abbastanza tardi nell’opera, Amy è l’unico personaggio femminile di un certo spessore. Pertanto la cronaca familiare dei Corrigan che Chris Ware delinea, si concentra quasi esclusivamente sulla parte maschile, che percorre 4 generazioni; dal bisnonno, William, fino a Jimmy. A ragion di logica, potremmo aspettarci che la somiglianza tra Jimmy e suo padre, si intenda tra di loro, ai loro occhi. Pertanto, la realta’ si rileva, a questo punto, un poco complessa: sembrerebbe che i ragazzi Corrigan si assomiglino fin dai tempi in cui erano fanciulli (il nonno da piccolo assomiglia come una goccia d’acqua a Jimmy da bambino); una fotografia testimonia inoltre che il nonno, fresco sposo ai tempi, assomiglia a Jimmy dei giorni nostri. In modo che attraverso quel viso che mostra la vecchiaia, Jimmy scopre i tratti che saranno, verosimilmente, i suoi più in là.
Al contrario, il bisnonno, non s’inscrive in questa continuità: è rappresentato con un naso diverso, una fronte bossata, delle spesse sopracciglia e baffi, che gli danno un aspetto molto diverso.

Estratto da “Jimmy Corrigan”, il bisnonno di Jimmy.

Ware evita pertanto il sistematismo che vuole l’esposizione fisica dei legami familiari. Forse per lui risulta meglio mettere in evidenza che l’essenziale di quello che si trasmette di generazione in generazione non è di quest’ordine; quello che diventa il soggetto principale dell’opera è la rottura dei legami familiari, i sentimenti di abbandono, la solitudine, l’inattitudine a rapporti di amicizia e relazioni amorose.

E questa similitudine di comportamento, che sembra sia dovuta ad una sorta di determinismo psicologico, o di fatalità ereditaria, è essa stessa metaforizzata nella continua e ripetitiva recita dei difetti corporali: Jimmy si è preso una storta appena prima di salire sull’aereo, e si sposta per tutto il volume con una stampella; sarà inoltre investito da un camioncino delle Poste davanti alla casa di suo padre; quest’ultimo è ricoverato per aver fatto un incidente al fine di evitare un cervo : costole rotte, tibia fratturata, piccolo trauma cranico, rischio di un’emorragia addominale, queste ferite lo porteranno alla morte; la madre di Amy è già deceduta nello stesso ospedale, e sua nonna perì in un incidente stradale negli anni 30.
Riguardo il nonno invece, nonostante la mancanza di stampelle, si muove con l’ausilio di un deambulatore.
Tutti questi incidenti e queste infermità sottolineano, nel linguaggio del corpo, le debolezze del cuore e l’inattitudine al buonumore tipico dei Corrigan.

Estratto da “Jimmy Corrigan”, Jimmy incidentato.

Il tema della somiglianza, fondamentale in Jimmy Corrigan, si rivela altrettanto centrale in Rusty Brown.
Il figlio, Rusty, ed il padre, William K Brown detto “ Woody”, hanno 35 anni di differenza tra di loro e, anche questa volta, è sufficiente guardarli l’uno vicino all’altro per capire che progressivamente diventeranno simili. Bisogna dire che sono i personaggi più caratteristici che Ware abbia mai disegnato: faccia rotonda, piccolo naso rotondo e stranamente rosa, tendente al rosso. Ognuno ha una caratteristica buffa: il figlio ha due denti da coniglio, mentre il padre porta occhiali con lenti spesse, dei baffetti e una pettinatura da clown.

Estratto da “Acme Novelty n. 16”, Rusty Brown da bambino.

Estratto da “Acme Novelty n. 16”, William Brown, il padre di Rusty.

Pubblicato sul n 19 di ACME Novelty Library ( d’ora in poi solo ANL ), il terzo capitolo di questa graphic novel ancora incompiuta descrive un flash back che ci permette di conoscere William nell’età dell’adolescenza, dove era, dopo tutto, un po’ più a suo agio. Il medesimo capitolo ce lo mostra mentre rompe i suoi occhiali e, anni più tardi, mentre si taglia i baffi.
Saremmo pertanto propensi a pensare che Chris Ware riproponga qui il medesimo spartito usato in Jimmy Corrigan, dato che ci presenta una coppia padre-figlio molto somiglianti tra di loro, sia dal punto di vista fisico che psicologico (padre e figlio si rifugiano in una realtà immaginaria per sfuggire da quella triste e senza fiducia); e a giudicare altrettanto strana la cecità di William, che non si riconosce nel figlio, per il quale ha solo disinteresse.

Il lettore, nel volume Quimby The Mouse, troverà nell’ultima parte dell’ opera diversi scritti dove si riconosce bene l’ironia di Ware. Il primo di questi brevi testi dice: “Non ho mai veramente incontrato il mio vero padre. Mi ricordo di averlo visto una sola volta, dovrei aver avuto 3 anni. Era seduto all’ingresso della casa duplex dove abitavamo io e mia madre (…) A giudicare dalle vecchie foto, ho iniziato ad assomigliargli man mano che crescevo“. Ignoriamo fino a che punto questa confessione, coerente da quello che sappiamo sulla biografia di Chris Ware, debba essere presa come oro colato. Se così fosse, non sarebbe in grado di chiarire i punti appurati e commentati poco sopra.
D’altronde nell’opera di Ware, la somiglianza non è necessariamente indice di una consanguineità. Pertanto, oltre che al padre, Rusty Brown assomiglia al suo nuovo compagno di classe, Chalky White, che diventerà il suo indissolubile e probabilmente unico amico. Come se non bastassero nomi simili (“marrone arrugginito“ vs “bianco gesso“) i due ragazzi hanno esattamente la medesima corporatura, si vestono in modo quasi identico, hanno entrambi la stessa faccia tosta (Rusty è tuttavia un poco più grosso), il medesimo piccolo naso caratteristico, lo stesso genere di pettinatura a forma di casco. Insomma, quei due sono destinati ad incontrarsi, a riconoscersi come assomiglianti e a fraternizzare.

Estratto da “Acme Novelty n. 16”, Chalky White e Rusty Brown da adulti.

Piccolo dettaglio: gli occhiali di Chalky lo distinguono dal suo amico, ma dato che sembrano molto simili a quelli di William, il padre di Rusty, questi rompono il gioco delle somiglianze e creano un nesso implicito laddove non c’è. Il colore dei suoi capelli (che sono neri), portano Chalky ad assomigliare ancora di più a William Brown invece che al figlio.
Questo effetto sembra obbedire ad una strategia studiata. Inoltre, per una ragione che ci appare misteriosa, la sorella primogenita di Chalky, Alice White, è disegnata similmente alla giovane fanciulla senza nome, fiorista ed inferma, protagonista di Building Stories. Soltanto una leggera differenza nel colore dei loro capelli permette di distinguerle. E’ per lo meno curioso che Chris Ware, che non ha creato tanti personaggi femminili, abbia disegnato queste due ragazze allo stesso modo.

Verso la fine di ANL n 16 appare tuttavia una pagina di transizione tra il primo capitolo di Rusty Brown e le prime pagine di Building Stories, pagina nella quale Ware si raffigura sotto una forma molto schematica [1] e si pone espressamente la questione: “Mi sto chiedendo se devo spiegare le differenze fra le ragazze di Rusty Brown e di Building dato che sembrano simili ma non si tratta del medesimo personaggio“.

La copertina del n 16, rappresenta il viso dei sette personaggi principali di Rusty Brown disposti in colonna, ed ogni testa si inscrive in un cerchio perfetto.
Nonostante le deformazioni e le caricature, sembra entrare in gioco un rapporto di parentela che unisce queste sette figure circolari; formando una costellazione grafica e inscrivendo il concetto di somiglianza al di fuori della narrazione che questa copertina ha la funzione di introdurre.

Se il rapporto tra padre e figlio, che si tratti dei Brown o dei Corrigan, fa emergere la problematica della rassomiglianza con sé stessi attraverso i diversi periodi della vita [2], questo tema viene trattato in modo molto più diretto nel quarto capitolo di Rusty Brown (vedi ANL n 20) che sviluppa la biografia completa di uno dei sette protagonisti di questa recita corale, il cosidetto Jordan (detto Jason) Lint – uno degli allievi di William Brown- dalle sue prime percezioni infantili fino alla vecchiaia. Questa biografia, cosi come la descrive Chris Ware, viene qui sviluppata su trenta grandi tavole ed è caratterizzata da grandi primi piani sul viso di Jason, che diventano sempre più numerosi man mano che invecchia. Abbiamo l’impressione che l’artista tenda a osservare, senza una vena di crudeltà, i segni della vecchiaia che compaiono sul viso del personaggio.
Da un momento della vita ad un’altro, la continuità e’ percepibile, ma tra i tratti di un giovane uomo ribelle che fu Jason e quelli di una vecchiaia appassita, rovinata, che sarà quello che diventerà alla fine, non vi sono altro che dissimilitudini.
Nel corso della sua vita, dal punto di vista della sua psicologia, del suo comportamento, dei suoi valori, Jason è stato più personaggi tutti molto diversi tra di loro. L’ultima frase che Ware gli fa dire: “Ma alla fine come arriva tutto ciò?“ evidenzia la sorpresa di questo percorso che è stata la sua vita. E le grosse tavole frontali, in grandi dimensioni, veritiere interpellazioni del lettore, testimoniano questa versalità [3].

Il problema che angustia Ware sembra proprio, alla fin dei conti, poter essere riassunto (col pensiero buddista) con i termini di permanenza e non permanenza di essere dentro gli oggetti stessi. Alla fine tutto cambia e tutto resta immutato. O, come disse già Eraclito, nulla è permanente salvo il cambiamento.

Tre estratti dal volume “ACME”.

Il fenomeno colpisce gli esseri viventi ma anche, e Chris Ware non lo ignora, le cose ed i luoghi. Ed è lo stesso soggetto di numerose tavole interessanti. Prima di tutto, alle pagine 6, 7 e 9 dell’antologia ACME, queste tre grandi tavole riportate qua sopra rappresentano dei disegnatori all’epoca della preistoria, nell’illuminismo ed in un futuro intermedio: da un’epoca all’altra i decori e i costumi cambiano, mentre l’artista ha sempre lo stesso viso ed è rappresentato nella stessa posizione di impotenza, come è tipico dell’uomo stesso. (Non senza ironia, Ware spinge la dimostrazione fino ad illustrare l’improbabile ipotesi che gli strumenti ed i supporti adoperati dall’artista non siano cambiati con il passare dei secoli e dei millenni! Tutto cambia, e nulla si modifica [5])

Mediteremo anche sulla pagina 40 della stessa antologia (proposta qua sotto), che ha la capacità di sintetizzare, su quindici vignette che formano un percorso regolare, le diverse epoche della casa di Big Tex.

Tavola in questione di “Big Tex”.

Tutte le stagioni dell’anno sono rappresentate, e si traducono attraverso immagini cromatiche molto differenti. Il passare degli anni è testimoniato da un albero che cresce fino al tetto della casa, ma la cronologia risulta stravolta: la piantumazione dell’albero ha luogo nella parte inferiore della tavola (penultima vignetta), e le tombe dei genitori di Tex compaiono nella seconda striscia, mentre le loro voci continuano a giungerci da quelle successive.
Un piano fisso in una unica iscrizione (quella della pagina), ma con un susseguirsi di luoghi che formano il puzzle della storia di una vita in ricostruzione. Ed è un tetto già in rovina, la carpenteria dislocata, che sormonta e conclude una casa nuova ed abitata. Tutto cambia, sotto lo sguardo fisso dell’osservatore, in modo impassibile.

Pagina da “Quimby the Mouse”.

Qua sopra menzioniamo quest’altra pagina interessante, ripresa nell’album Quimby the Mouse, dove la storia di una famiglia è evocata in modo metodico attraverso il destino di una lampada, dove l’abat-jour viene sostituita in quattro momenti diversi e pertanto i proprietari hanno, a volte, l’intenzione di sbarazzarsene, ma che alla fine non li abbandona mai.
I membri della famiglia rimangono fuori campo, captiamo solamente alcune frasi sussurrate dei loro discorsi, l’inquadratura rimane con ostinazione e quasi in modo ossessivo focalizzato sulla lampada, testimone muto del tempo che passa, delle mode che si susseguono, dei comportamenti che si modificano.
Tutto cambia, ma almeno resta immutato un testimone delle memorie familiari. [6]

Per un disegnatore, esiste un modo semplice per denunciare il concetto di identità e di somiglianza con sé stessi, che consiste semplicemente nel modificare il codice grafico (il modo di disegnare) . A questo riguardo, la diversità di autoritratti seminati da Ware in tutta la sua opera è impressionante.

Chris Ware nei panni del professore in “Rusty Brown”.

Il professore di disegno della scuola dove disegnava William Brown lo rappresenta assai fedelmente e porta il suo nome. In altre parti, e per esempio in questa pagina di transizione già menzionata che figura nell ANL n 16, Ware, si presta ad uno schema corporale ultra semplificato: un cerchio per la testa, un altro, più grande, per il corpo, e semplici stecche per le membra (conforme allo schema diagrammatico spiegato nella nota 1) . Ma è evidente nei suoi sketchbooks (Acme Novely Datebooks vol 1 e 2) come gli autoritratti abbondino: tentativo di captare in modo reale l’immagine riflessa dallo specchio, moltissimi ritratti dell’artista al lavoro in uno stile che si rapportano alle funnies del passato o ai mini comics autoprodotti d’oggi, e proiezioni fantomatiche, le più diverse: Ware è un uomo volante, un infermo, un pene gigante, un personaggio di Schulz, etc. Per l’autore di Jimmy Corrigan, l’autorappresentazione fa rima generalmente con auto deprecazione, ma ciò che ci interessa è la molteplicità di queste immagini di se stesso.

Due autoritratti presenti in “Acme Novelty Datebook vol. 1”.

Vi si può leggere il tentativo di produrre un fumetto autenticamente autobiografico, ed allo stesso tempo che abbia in sé una questione lancinante sulla propria identità, una propensione a nascondersi dietro una maschera e, forse, qualche difficoltà ad accedere alla sua propria verità.
Come abbiamo cercato di dimostrare, la questione dell’identità e della somiglianza in tutta l’opera di Crish Ware, conviene metterla in stretta relazione con la specificità stessa del linguaggio del fumetto.

Forse tutte queste variazioni narrative sulla permanenza e non permanenza non fanno altro che metaforizzare questo elementare processo: nel fumetto i discorsi progrediscono creando una forte tensione, da caso a caso, entro ciò che rimane immutato e ciò che cambia. Questa dialettica risulta particolarmente visibile in Ware che, più di ogni suo altro collega, ama ripetere in maniera sistematica le stesse tavole, i medesimi punti di vista, nei quali qualsiasi modifica del contenuto rende immediatamente il senso.

[1] Lo stile schematico, o diagrammatico, adoperato per questa tavola, e che l’artista non ha più riutilizzato da allora, (per esempio sulla copertina di McSweeney’s Quarterly Concern n 13, o per le avventure dell’ape Branford), non può non essere paragonata a ciò che, progressivamente, adotta l’artista Ivan Brunetti, che è uno dei più vicini colleghi nella professione.

Risulta difficile capire chi abbia influenzato l’altro. Ma Brunetti ha scritto nel piccolo manuale Cartoonig, Philosophy and Practice (pubblicato sotto forma di un supplemento a Comic Art n 9) questa citazione di Ware : “In verità il disegnare fumetti non consiste in un semplice disegno, quanto piuttosto in un linguaggio pittografico complicato, fatto per essere letto, non solo guardato“.

[2] Nel 1906 questo tema era  il soggetto di uno dei vaudeville act di Winsor Mc Cay, performance eseguita dal vivo nei teatri. Con qualche colpo di gesso, su una lavagna nera, il creatore di Little Nemo, illustrava le diverse età della vita modificando progressivamente i visi di un ragazzino e di una fanciulla.

[3] Risulta interessante paragonare queste tavole al pensiero del poco conosciuto Rodolphe Topffer : “ i buoni ritratti si assomigliano per tutta la vita o, piuttosto, lungo tutta la vita le persone assomigliano al loro ritratto se hanno capito la fine dell’essere, l’essenza, la sostanza dell’individuo, se hanno carpito la personalità intangibile ed indefinibile che si cela sotto e che è l’essere vero.” (Lettera del 21 novembre 1835 a David Munier, Correspondance Complète, vol. III, Ginevra, Droz, 2007, p. 176.)

[4] L’opera raccoglie i brevi racconti pubblicati su diversi numeri di Acme Novelty Library ( essenzialmente n 7 e 15 , intitolati Joke Books) con l’aggiunta di parecchie pagine inedite.

[5] Le illustrazioni realizzate da Ware per il New Yorker nel 2006 , in occasione di Thanksgiving, che rappresentano dei pranzi di famiglie in epoche diverse, seguono una medesima dialettica di analogie e differenze (vedi immagine sottostante).

[6] Le ultime 2 pagine che abbiamo commentato testimoniano in modo scioccante l’influenza decisiva che ha avuto su Ware il famoso fumetto di 6 pagine di Richard McGuire, Here, inizialmente pubblicato su Raw nel 1989 e ripreso nel n 12 di Neuvieme Art, con una introduzione di Ware stesso, dove dichiara che nessun altro fumetto ha avuto su di lui un tale impatto.

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