Archivi del mese: Maggio 2011

Sullo Yeti di Tota

di Andrea Queirolo

Finalmente ho letto Yeti di Alessandro Tota, e avrei dovuto farlo molto tempo prima, soprattutto perché l’ho comprato appena pubblicato, ma per diversi motivi sono davvero così poche le cose che leggo appena uscite.

In Francia Yeti è uscito con un altro titolo, Terre d’accueil, che grazie al mio pessimo francese posso tradurre come Terra d’accoglienza, un titolo che aiuta molto più di Yeti a comprendere la volontà di quest’opera.
Infatti lo Yeti di Tota è solamente un pretesto distaccato per narrare alcune vicende: potrebbe essere il personaggio di una favola inserito nella vita reale; potrebbe essere un immigrato qualunque a Parigi; potrebbe essere una specie di disadattato sociale e via dicendo.

Lo Yeti di Tota vorrebbe anche essere il protagonista di questa storia, e lo è, ma solo in apparenza. I veri protagonisti sono le situazioni che si creano attorno a lui, sono le relazioni, il lavoro, gli amici e Parigi stessa (rappresentata in modo molto fedele). Infatti è certo che questo libro prende spunto dalla biografia dell’autore, che lasciando indietro le esperienze dei diari, e devo dire con una certa intelligenza, sfrutta le sue vicissitudini autobiografiche per spiegare dall’esterno cosa si prova a essere soli fuori dal proprio mondo.

Tota affianca allo Yeti dei personaggi reali, cioè che esistono davvero: Caterina, Volker e lo stesso Alessandro Tota. Fortunatamente quando entra in scena il personaggio di Alessandro, si capisce subito come queste figure non siano altro che attori nelle mani del fumettista e come della loro controparte reale l’autore prenda in prestito solo l’aspetto fisico (anche perché non mi spiegherei la stronza saccenteria del personaggio di Alessandro).

In questo racconto si scopre come Tota sia debitore del cinema italiano, e non intendo nelle sequenze o nei tagli delle vignette, e neanche nel ritmo; non parlo neppure delle pagine introduttive, che evidentemente sono una scelta stilistica. Parlo dell’impostazione della storia, dei dialoghi e dell’uso del cast che mi riportano indietro agli anni magici di certi film di Scola, Risi e Monicelli.
Nei personaggi di Tota rivedo la naturalezza recitativa non forzata di certi attori che oggi non ci sono più.

Un’altro fattore importante è la leggerezza con cui l’autore affronta il tema.
Oggi, infatti, troviamo sempre più storie a fumetti che tirano in ballo le esperienze personali, i rapporti di coppia, le relazioni difficili e i contatti occasionali. La maggior parte di questi racconti mira ad essere il più realistico possibile, senza lasciare spazio all’immaginazione del lettore, riducendo tutto ad una raccolta di eventi, spesso tragici o depressivi e spogli di sfumature.
La storia di Tota invece, pur avendo un suo tono greve e malinconico, è pervasa da una vena che oserei definire comica. Un particolare che ritrovo spesso nei fumetti dell’autore, che si distinguono dalla massa grazie proprio ad una genuinità che ad altri manca.

Ora a Tota non resta che mettere da parte lo Yeti, prendere i suoi attori e far partire la macchina da presa.

Grant Morrison come Gesù Cristo

di Andrea Queirolo

Grant Morrison come Gesù, ispirato da uno foto di Jim Morrison.
Scatto preso da un’intervista di Mark Millar a Morrison, pubblicata sulla fanzine Fantasy Advertiser, a sua volta ripresa dal video musicale di Ronnie Bookless, Cigarettes for Jesus del 1986.

Ringrazio Antonio Solinas per alcuni suggerimenti.

Looking Forward

di Andrea Queirolo

D. Clowes

Un anno è passato da quando inauguravo questo blog con un’intervista a Paul Hornschemeier. Non nascondo che Conversazioni sul Fumetto sia nato dalla necessità di approfondire e provare a parlare di quel fumetto per il quale provo un certo interesse. E’ stato un approccio timido e, personalmente, lo ritengo timido tutt’ora che sembra tutto ingranato e oliato, ma che invece vorrei vedere ancora più propositivo. Eppure son contento del lavoro che stiamo facendo, e non finirò mai di ricordare come i post che leggete ci sono solo grazie allo sforzo di tutti i ragazzi e le ragazze che partecipano a questa avventura.
A volte mi domando sinceramente chi ce lo faccia fare di impegnarci così tanto per una cosa che non ci dà assolutamente nulla in cambio. Poi rimuovo questo pensiero e mi scopro assorto nella lettura di un fumetto o di un articolo critico e capisco che quello che facciamo lo facciamo perché ci piace, per passione.
O se non altro questo è il mio pensiero.
In fondo attendo, e voglio solo sperare che il discorso che stiamo portando avanti su queste pagine, in modo positivo o negativo (non sta a me dirlo), possa rimanere ed essere utile a chi legge, studia, ama o semplicemente si avvicina al fumetto per la prima volta.

Le Someday Funnies stanno arrivando!

di Andrea Queirolo

Ci son voluti quarant’anni, ma finalmente The Someday Funnies verrà stampato a novembre dalla Abrams ComicsArt. Su ICv2 è stata annunciata la notizia e sempre lì potete leggere un’intervista all’autore dell’antologia.

Un progetto strambo, epocale, utopico e avanguardistico quello di Michel Choquette, che gli costò sette anni di vita e migliaia di dollari di debiti.

Ne avevo spiegato la storia qua, ma ora il libro si potrà finalmente toccare con mano: 216 pagine, 169 artisti da 15 paesi diversi (non solo nel campo fumettistico) e introduzione critica di Jeet Heer.

Mi aspetto alti e bassi da questo volume, ma l’ho già preordinato perché la sua vicenda è affascinante e ha un’importanza storica davvero notevole.

Una pagina di Harvey Kurtzman tratta dall’antologia

Una pagina di Jack Kirby e Joe Sinnott, dall’antologia

Kirba il tuo entusiasmo! – Mark Newgarden

di Mark Newgarden

traduzione di Katia Zaccaria

James Finlayson??
Ho riletto di recente un paio di uscite di Superman’s Pal Jimmy Olsen, “redatto, scritto e disegnato da Jack Kirby” che lessi, per la prima (e ultima) volta, nel 1971, all’età di 12 anni. Non sono sicuro quanto sia importante per voi saperlo, ma non saprei altrimenti come parlare di Kirby se non come un ex-adolescente.
Come ricordavo vagamente, la storia tratta di Jimmy Olsen e la Newsboy Legion in missione in Scozia. Quello che non ricordavo è che i testicoli del “Nuovo” Jimmy Olsen, giovane reporter, sembrano essere finalmente scesi, ed eccolo qui, tutto muscoli, basette e spavalderia da mascella quadrata. E tutti quegli strilloni hanno solo una vaga somiglianza coi tipi smunti e di bassa statura, che nella mia gioventù dispensavano giornali (e fumetti) sul terminal del traghetto per Staten Island.

In mezzo alle molte vignette prevedibili con mostri giganti, esplosioni d’inchiostro e cromature fantasiose (il tutto condito da un’imbarazzante, meravigliosa ricercatezza), quello che ricordavo meglio e con più ossessione mi rimane inspiegabile come la prima volta.
L’Ex-Keystone Kop James Finlayson (1887-1953) è meglio ricordato come la causa ricorrente dei fastidi di Stanlio e Ollio – e meglio dimenticato per aver lasciato in eredità a Homer Simpson (e al mondo) il suo farfugliato marchio di fabbrica: “D’Ohhh!”.
Anche se avevo dedotto che Jack Kirby non era un hippy, ho capito bene perché la psichedelia animava questi fumetti. I ragazzi capiscono subito quando sono il target del commercio. E i mostri e le esplosioni sembravano solo far parte del gioco. Ma Finlayson? Questa era la figura storica su cui il mio personale, perverso radar dodicenne era particolarmente sintonizzato, ma di certo lui non era una strategia di marketing nel 1971, né durante la sua vita, né oggi. E nella mia visione del mondo divisa per scompartimenti, Finlayson aveva così poco a che fare con Superman’s Pal Jimmy Olsen tanto quanto il comico dell’insulto Don Rickles (il cui primo piano malizioso aveva abbellito la copertina di qualche numero precedente). Ma evidentemente non per Jack Kirby.

Stavo consumando numerosi fumetti di super eroi in quel tempo, e volevo fortemente farmene piacere (o solamente capire) alcuni di essi. Purtroppo non sarebbe mai capitato. Ciò nonostate quei titoli “Kirby is Back!” che la DC vendeva porta a porta nei primi anni ’70 erano molto più stuzzicanti del resto – se non in ultima istanza più inavvicinabili. A parte cercare di capire perché tutto continuasse ad esplodere, che cosa dovessero fare tutte quelle macchine scintillanti e perché la parola “destino” apparisse in quasi ogni pagina, avevo incontri come questo – dal Superman’s Pal Jimmy Olsen #144 (Dicembre 1971) — da affrontare.
Ecco qua sopra il nostro faccia a faccia con l’assassino, MacFinney, che è appena stato sfiorato dal “Whiz Wagon” del protagonista. L’esasperata smorfia mono-occhio era lo strambo marchio di fabbrica del comico e sembra essere l’unica espressione per la quale il fumettista possedeva materiale di riferimento – è usata ancora e ancora durante la storia finché il cattivo è finalmente allontanato da un mostro di Loch Ness.
Ancora non capisco bene che cosa voleva fare Kirby nel ricontestualizzare amati comici come cattivi dei fumetti. So che questi cameo non erano divertenti e so che non erano nemmeno esattamente seri. Per quel che ne so, era il capolinea di una sua mossa particolare. Ma qualunque sia stata la sua motivazione (o la sua mancanza) Jack Kirby, fumettista dell’assurdo, questa volta mi catturò: questa vignetta mi paralizzò con un “D’Ohh!” che mi è rimasto incastrato nella memoria per 40 anni.

***

Mark Newgarden a Los Angeles negli anni ’80

Mark Newgarden, classe 1959, fumettista, è meglio conosciuto per le sue apparizioni sulla rivista Raw e per le incursioni sul New York Times. Da anni, alla carriera fumettistica, affianca una proficua produzione per la Tv e l’animazione. Importanti sono le sue produzioni e sceneggiature per Nickeloden e Cartoon Network. Fra i suoi libri: Cheap Laffs (Harry N. Abrams, 2004), We All Die Alone (Fantagraphics Books, 2006), Bow-Wow Bugs A Bug (Harcourt Books, 2007). Il suo sito internet è: www.laffpix.com

Link al post originale.

Questo articolo fa parte di una serie di post di diversi autori, tutti incentrati sull’analisi di una particolare vignetta di Jack Kirby e apparsi sul sito Hilobrow.
Si ringrazia quindi il sito Hilobrow per averci concesso la possibilità di tradurne una selezione.
Grazie anche a Mark Newgarden per la sua disponibilità.

Supereroi le Leggende – Secret Invasion

di Andrea Pachetti

Supereroi le leggende Marvel è la nuova collana supereroistica presentata nelle edicole dalla Panini con RCS, dopo la conclusione di Supereroi le grandi Saghe, che era giunta al notevole traguardo dei 100 numeri. Le uscite programmate risultano al momento 30, ma di sicuro potranno moltiplicarsi come nel caso precedente, se l’iniziativa riscuoterà successo.

Si è molto parlato nel corso del tempo di questo tipo di collane, in particolare se la loro indubbia riuscita possa in qualche modo portare un flusso di nuovi lettori alle testate periodiche che affollano normalmente edicole e fumetterie. La mia impressione personale è che questo flusso sia marginale, se non praticamente nullo: penso cioè che ci si rivolga (pur se con lo stesso tipo di prodotto, in fondo) a due tipi di pubblico completamente diversi.

Chi acquista queste collane (magari solleticato in qualche modo dai film) di solito tende a gradire storie complete e autosufficienti (il fumetto seriale fatto “libro” insomma), piuttosto che maturare l’abitudine di leggere mensilmente le avventure del proprio personaggio preferito. Una tendenza peraltro ormai consolidata e trainante, dato che anche lo stesso mercato statunitense presenta vendite ridicole[1] per gli spillati periodici, in favore delle raccolte in trade paperback e hardcover. A questo c’è anche da aggiungere il fattore collezionistico: in passato qualcuno[2] aveva adottato con una certa sagacia la definizione di “fumetti Ikea” per questo tipo di iniziative editoriali e non mi sento affatto di dargli tutti i torti, anzi. Da questo punto di vista, gli spillati mensili hanno un’attrattiva senz’altro minore.

Ritengo che questa prima uscita della serie RCS sia comunque alquanto infelice nell’avvicinare i nuovi lettori, per tre motivi che andrò adesso ad analizzare. In un crossover, come nel caso di Secret Invasion, l’orchestrazione di una vicenda così articolata è fondamentale e prioritaria, sia per gli autori che per gli editor: pur contando sulla bontà della storia in sé, senza questo tipo di attenzione il crossover fallirebbe senz’altro nel suo intento principale, cioè mostrare un universo in movimento. La realizzazione perfetta è quella in cui un lettore è soddisfatto sia quando può avventurarsi in una lettura totale (avendo la percezione dell’evento nella sua completezza), sia leggere solo la storia del suo supereroe preferito ricavandone esclusivamente il punto di vista di questo.

Il primo problema di Secret Invasion riguarda appunto questo aspetto, cioè che nella lettura autonoma la miniserie risulta davvero inconcludente. Si noterà nello scorrere delle pagine una serie di repentini cambi di scena, poiché le battaglie sono molte e assai popolate: i Vendicatori nella Terra Selvaggia, Fury a New York, lo S.W.O.R.D., i Thunderbolts ecc. Questo tipo di narrazione “a singhiozzo” (già usata ad esempio da Millar in Civil War) rivela purtroppo tutti suoi limiti pagina dopo pagina, in un senso di confusione generale e incompiutezza. Si sente cioè davvero la mancanza durante la lettura dei ben realizzati tie-in presentati nelle serie New e Mighty Avengers, nonché delle miniserie collaterali[3] come S.I. Frontline.

Il secondo problema è che la mini è scritta MALE: i semi dell’invasione segreta Skrull erano stati gettati anche in trame di diversi anni prima e l’avvicinamento progressivo all’evento era indubbiamente affascinante, così come altrettanto interessante era il classico tema fantascientifico del doppelganger malvagio à la Body Snatchers[4] in salsa Marvel, ma l’esecuzione in sé lascia a desiderare, risolvendosi spesso solo in un profluvio di amorevoli scazzottate; ciò che esalta sono senz’altro le bellissime tavole di Leinil Yu, sebbene ciò a mio parere non sia sufficiente per ruotare il pollice verso l’alto.

La terza questione è per me la più grave, poiché S.I. è senz’altro una serie per nerd: non saprei in quale modo definire l’arrivo dei Vendicatori-doppioni anni ’70 nella Terra Selvaggia se non un fan service, aggiungendo a questo il numero davvero devastante di personaggi che non vengono introdotti in nessun modo, dando per scontato ad esempio che esista un Capitan Marvel clone Skrull o mille altre situazioni analoghe. Ho anche l’impressione (attenzione, segue spoiler) che non si abbia la percezione di quanto sia pesante a livello emotivo la morte di Wasp nella fase finale di S.I. e il dolore di Hank Pym (prima sostituito e poi ritornato), a meno che non si leggano questi due personaggi sin dai loro esordi nei Vendicatori e si conosca la profondità del loro legame.

A questo proposito sarebbe utile per me avere l’impressione di qualche “novizio” per potermi chiarire meglio le idee; posso notare come la morte di Wasp funzioni solo in quanto astratto sacrificio epico, ma senza l’impatto emotivo che meriterebbe. Ben diversa ad esempio la reazione all’evento tragico accaduto a Sue Dibny in Identity Crisis: in questo caso la straziante disperazione personale viene trasmessa al lettore dalla trama stessa, poiché è proprio Elongated Man a descrivere nei dialoghi iniziali quanto ci è necessario per “soffrire” assieme a lui.

In conclusione, non vorrei che questa prima uscita fosse uno scalino troppo alto da superare per il lettore occasionale e fungesse piuttosto da respingente, nei confronti di fumetti che richiedono un impegno non trascurabile per la loro fruizione, ma che possono offrire soddisfazioni immense. Alcune delle prossime uscite mi sembrano assai più leggibili in questo senso, in particolare quelle relative a Spider-Man e gli X-Men, per cui mi auguro comunque di notare un numero sempre maggiore di appassionati lettori di supereroi, magari anche giovani: un minimo di ricambio generazionale sarebbe gradito in un minimondo popolato sempre più solo da anziani nerd, simpatici ma spesso assai brontoloni. Come il sottoscritto, peraltro.

* * *

[1] Gli spillati più venduti nelle classifiche Diamond relative al direct market sfondano a stento la quota delle 100.000 copie; una buona testata si attesta mediamente sulle 30-40 mila, quasi tutte non superano le 10 mila. Andando a riflettere sul possibile bacino dei lettori in lingua inglese, si comprende quanto le cifre siano ridicole.

[2] cfr. Alessandro Bottero in www.fumettidicarta.it/articoli/2009_07/crisi/maleducati.html

[3] Una lista completa dei tie-in è presente su Wikipedia.

[4] Mi riferisco al film di Don Siegel del ’56 e i suoi vari seguiti/remake, ispirati al romanzo di Jack Finney.

I Bled The Sea – Jeff Catherine Jones (1944-2011)

articolo e traduzione di Andrea Pachetti

Jeff Jones (destra) e Berni Wrightson (sinistra) al Comic-Con del 1973

Come omaggio alla recente scomparsa dell’artista Jeffrey Catherine Jones, presentiamo la storia a fumetti in due pagine I bled the sea, pubblicata originariamente nel volume The Forbidden Book. Volume 1: Journeys Into the Mystic dalla Renaissance Press nel 2001. Ecco come Jeff Jones commentava quest’opera in uno stralcio dell’intervista apparsa su Sequential Tart:

Quali sono i lavori dei quali sei più orgogliosa?

“E’ un po’ come la Scelta di Sophie: davvero, non saprei dirtelo. Nella situazione ideale, la speranza è che sia l’ultimo lavoro fatto (sorride). Per quanto riguarda i fumetti, quattro anni fa ho scritto e disegnato “I Bled the Sea” e mi piace. E’ in bianco e nero. Quando disegno non voglio aggiungere il colore: il bianco e nero possiede una sua forza particolare, una qualità d’astrazione che permette al lettore di usare la propria immaginazione. Quando lavoro con l’inchiostro, si deve trattare di un’opera in bianco e nero.”

Affianchiamo alle due tavole in inglese una traduzione o meglio, trattandosi di poesia, un tentativo di “versione” in italiano, con tutti i limiti e gli adattamenti del caso.


In un luogo deserto, sola sono arrivata
guardando con gli occhi d’una razza accecata

Nella landa di luce fui nera stella
per l’alba della notte una mera sentinella

Resisto all’oscuro con occhi da cieco
chi conosce i confini d’una buia eco?

Tentai di pianger fiumi di lacrime insicure
Invero vi è un luogo tra speranze e paure.

Sulla sabbia mi fermai un momento a sostare
e tra le mie gambe sanguinai il mare.

***

Luca Boschi ricorda Jeff Jones: 1 / 2

Alan Moore parla di Neonomicon

di smoky man

Dal 2008 ad oggi l’impegno in campo fumettistico di Moore pare tutto concentrato solo ed unicamente sulle nuove avventure de La lega degli straordinari gentlemen. L’unico altro fumetto firmato da Moore è Neonomicon (disegni di Jacen Burrows), miniserie edita dalla Avatar, il cui quarto e ultimo numero è stato presentato a Marzo 2011 durante la manifestazione Chicago’s Pop Culture Event. Si tratta probabilmente dell’ultima incursione di Moore nei comics mainstream. In un’intervista del 2010 apparsa sul sito Weaponizer, Moore raccontava:

“Quello che è successo con Neonomicon è che quattro o cinque anni fa avevo appena lasciato la DC a causa delle cose orribili che erano accadute per il film su Watchmen. Avevo deciso che quella gente era davvero feccia, e non lo dico in senso retorico. Lo dico in senso letterale, perché era gente che stava manifestando un comportamento del tutto subumano. Ho conosciuto dei drogati di crack che si comportano in modo migliore di alcune delle persone che lavorano in questi grandi conglomerati dell’industria dell’intrattenimento.

Così avendo preso le distanze da quella gente, io e Kevin O’Neill abbiamo scoperto che sembravano esserci dei problemi nel ricevere i nostri pagamenti per tempo… venivamo puniti, sostanzialmente, per aver osato sbandierare pubblicamente il modo in cui eravamo stati trattati. Io venivo punito e punire Kevin era un modo per arrivare indirettamente a me.

All’improvviso è arrivata una cartella esattoriale da pagare, e non avevo ricevuto ancora i soldi che mi erano stati promessi. Ed ero sotto di qualche migliaio di sterline per sentirmi tranquillo. William Christensen della Avatar mi ha telefonato. E ha accennato al fatto che se avessi voluto fare qualcosa per la sua casa editrice aveva dei soldi da parte proprio per un’eventualità simile. Così gli ho detto: “Beh, a dire il vero, al momento ho bisogno di soldi, che te ne pare se scrivessi una miniserie di quattro numeri per tot dollari? Potresti pagarmi l’intera somma subito e ti consegnerò il tutto entro i prossimi quattro mesi?” Ha risposto che gli andava bene, così ho avuto i soldi per pagare le tasse. Ora, non faccio nulla solo per soldi, è stato un fatto di opportunità, perché avevo bisogno di quella somma, ma non avrei buttato giù una roba inguardabile. Avevo parlato in precedenza con William dicendogli che ero piuttosto contento per l’adattamento che avevano fatto del mio racconto “Il Cortile”. Pensavo che fosse una buona storia e al tempo avevo anche ragionato sul fatto che forse con quei personaggi non avevo del tutto finito. Avevo una vaga idea per un seguito. Così ho proposto che avrei potuto realizzare un sequel a fumetti de “Il Cortile”, una miniserie di quattro albi intitolata “Neonomicon”.

Quando ho iniziato a scrivere, c’erano alcune cose che volevo fare. Volevo creare una storia che modernizzasse Lovecraft, che non dipendesse da quell’atmosfera anni ’30, e che lo modernizzasse con successo, almeno secondo me.

Credo che stessi anche pensando che sarebbe stato interessante inserire un po’ di realismo nell’impossibile, come nella serie televisiva dell’HBO “The Wire”. Perché quella serie era così credibile e realistica che poteva essere un ottimo modo per approcciare qualcosa di intrinsecamente fantastico e incredibile come H.P. Lovecraft.

Questa era una delle idee iniziali, l’altra era di reinserire davvero alcuni degli elementi ripugnanti che lo stesso Lovecraft aveva censurato o che gli autori venuti dopo Lovecraft, che avevano scritto pastiche delle sue opere, avevano deciso di escludere. Come il razzismo, l’anti-semitismo e le fobie sessuali piuttosto evidenti in tutti i mostri lovecraftiani, che sono viscidi, con richiami fallici e vaginali.

Con Lovecraft l’horror è fisico, per questo volevo inserire di nuovo quella componente. E inoltre laddove Lovecraft era delicato di stomaco, dove accennava solo a ‘certi rituali innominabili’, oppure usava eufemismi come ‘riti blasfemi’… era piuttosto evidente, considerando che molte delle sue storie raccontano di una progenie inumana di questi ‘riti blasfemi’, che probabilmente il sesso doveva aver avuto un qualche ruolo. Ma nelle storie di Lovecraft non compare mai, ma è sempre sottotraccia. Così ho pensato, mettiamoci dentro tutta quella sgradevole roba razziale, mettiamoci il sesso. Tiriamo fuori un qualche autentico ‘rituale innominabile’, diamogli un nome. Queste erano le direttive da cui sono partito e ho deciso di seguirle ovunque mi avrebbero portato. È uno dei fumetti più sgradevoli che abbia mai scritto. […] È una delle storie più oscure, più misantropiche che abbia mai fatto. Ero davvero di umore nero. Avevo appena scoperto che c’era della gente che cercava di mettermi pressione facendo pressione sul mio amico, Steve Moore, che al tempo aveva un fratello malato terminale. […] Era un qualcosa che veniva dall’industria dei comics, e si erano spinti troppo oltre. Pensavo che fossero persone capaci di tutto, ma così avevano superato il limite. Per cui ero davvero pieno di rabbia e credo che si sia riversata nella storia. È diventata davvero sgradevole.

Volevo essere risoluto. Pensavo: se sto scrivendo una storia horror, facciamola orribile. Mettiamoci degli elementi che non si trovano nelle storie horror. Perché William Christiansen mi aveva insensatamente detto: ‘Guarda, sai che ti puoi spingere oltre quanto vuoi.’ Me lo sono fatto ripetere e ho replicato: ‘Allora… posso mostrare delle erezioni? Penetrazioni?’ E lui: ‘Certo!’ Non so se pensasse che l’avrei fatto o no ma… sì, l’ho fatto. Non avevo mai scritto sul sesso in quel modo. È piuttosto sgradevole. E ci sono voluti anni prima che vedessi le tavole… perché, Jacen sta facendo un lavoro incredibile sui disegni, ma sinora ho visto solo il primo numero. […] Così mi sono riletto le sceneggiature dei successivi tre albi e ho pensato, ‘Mi sono spinto troppo oltre?’ Ripensandoci, sì, forse mi sono spinto troppo oltre, ma rimane una buona storia.

[…] E credo abbiamo raccontato una storia lovecraftiana moderna e credibile, che non si svolge ad Arkham. Che non si svolge a Innsmouth. È chiaro che quei luoghi esistono solo nelle storie di H.P. Lovecraft. Ma riconoscendolo, ho potuto rendere la storia più credibile, se capisci quello che voglio dire. Riconoscendo che quelli sono elementi della fiction di Lovecraft, ho potuto renderla credibile come qualcosa che accade nel nostro mondo o in uno molto simile, piuttosto che nel tradizionale mondo lovecraftiano.”

 ***

A cura di smoky man. Estratto dall’appendice contenuta nel volume Le straordinarie opere di Alan Moore di prossima uscita per Black Velvet Editrice.

Intervista a Gud

di Daniela Odri Mazza

L’edizione di Napoli Comicon di quest’anno (29 aprile – 1 maggio 2011) è stata dedicata al rapporto tra il fumetto e la musica. Proprio in questa occasione ha fatto la sua prima apparizione pubblica Gaia Blues di Gud (ed. Tunué), una storia delicata scritta al ritmo della terra che gira e del sole che sorge e tramonta, mentre le petroliere affondano al largo, mentre le specie protette si estinguono, mentre i rifiuti tossici s’accumulano al largo, in un punto indefinito dell’Oceano.

Ho chiesto a Daniele “Gud” Bonomo di raccontarmi qualcosa in più su questo nuovo lavoro, sul linguaggio che ha utilizzato, sul suo rapporto con la musica e con la salvaguardia del pianeta:

Ho letto che Gaia Blues è stato definito “una canzone a fumetti”. Come è nato questo approccio musicale nei confronti della storia che volevi raccontare?

La storia è nata pensando ad un’immagine abbastanza triste, quella di un orso alla deriva su un pezzo di ghiaccio che lentamente si scioglie. Da lì quasi in automatico è arrivata la colonna sonora, un blues lento e malinconico che parla dell’Amore che l’Uomo dovrebbe avere nei confronti della Terra. Le immagini scorrono ritmate da vignette sempre dello stesso formato, un ritmo costante interrotto solo alla fine delle strofe. A tenere insieme le strofe un ritornello ritmico con il buon vecchio sole a vegliare sul nostro destino.

Un’altra caratteristica originale di questo libro a fumetti è l’assenza delle parole, del testo scritto. Ti eri già confrontato con la narrazione senza parole? C’è una particolare esigenza comunicativa dietro questa scelta?

Pensando alle vicende raccontate in questa storia e al ritmo che si è data, mi è sembrata obbligata la scelta di raccontare tutto senza le parole. Sia per avvicinare un pubblico più eterogeneo possibile, dai bambini agli anziani, dal Nord al Sud del mondo, sia per rendere ogni lettore il creatore della propria colonna sonora, del suo personalissimo Blues. 

Mi ero già confrontato con la narrazione senza parole, per una storia che si trova nel libro Gentes (Tunué 2007) dal titolo Merde, da cui poi è stato realizzato anche un cortometraggio. Storia nata durante la 24Hic manifestazione in cui gli autori si trovano costretti a creare una storia compiuta di 24 tavole in 24 ore. Raccontare senza parole è divertente.


Il conflitto tra il genere umano e la Terra (Gaia) è purtroppo sempre di stretta attualità. Ma non c’era il rischio di cadere nella retorica parlando di un tema come questo? 

La retorica quando si parla di fumetto con tematiche ambientali rivolto anche ai bambini è la perenne spada di Damocle sulla testa di chi fa questa scelta. Io ho tentato di dare la mia interpretazione della cosa, speriamo di aver reso giustizia alla causa.

Mi ha colpito un dettaglio molto realistico che si ripete nella vicenda: sono i bambini, in ogni parte del mondo, quelli che osservano più acutamente le cose e si accorgono di tutto quello che non funziona, mentre gli adulti sono avvolti da una specie di acuta insensibilità. La speranza di un miglioramento è in mano alle nuove generazioni?

Più che una speranza credo sia una certezza.

***

Gaia Blues uscirà nelle librerie a fine luglio. Fino ad allora sarà possibile acquistarlo alle prossime presentazioni e nelle manifestazioni di settore, come ad esempio il prossimo Salone Internazionale del Libro dal 12 al 16 maggio.

 Il libro, vale la pena ricordarlo, è stampato su carta “amica delle Foreste”, certificata FSC.

 

Leggendo il Tex di Tito Faraci

di Andrea Queirolo

Sinceramente ho perso il conto di quanto tempo era che non mettevo mano ad un numero di Tex. Non che avessi problemi a recuperarne uno, visto che probabilmente, grazie a mio padre, in casa ne ho tutte le storie. Ho sempre letto Tex in passato, però ammetto che saranno almeno cinque anni che non ne sfogliavo una pagina. Le motivazioni del mio allontanamento da questo personaggio sono diverse, ma principalmente avevo smesso di leggerlo perché trovavo le ultime storie un po’ stucchevoli, e a volte facevo fatica ad arrivare alla decima pagina.

Ieri spulciavo in uno dei tanti armadi in cui mio padre relega gran parte della produzione bonelliana del secolo scorso e, ora più che mai, di questo (a parte Napoleone, che sta in camera mia per ragioni a me ovvie, ma che magari spiegherò un’altra volta). Mi sorprendo un po’ da solo a cercare fra gli ultimi Tex un nome di un autore di cui mi farebbe piacere guardare i disegni e trovo un numero disegnato da Mastantuono, “Missouri” il 583, che però è la prima parte di una storia di cui non trovo il seguito. Mentre cerco quello che mi manca scopro un racconto di due numeri scritto da Tito Faraci e disegnato dai fratelli Cestaro (Lo sceriffo indiano e La preda umana, rispettivamente num. 581 e 582, marzo/aprile 2009). Ricordo vagamente questo trio all’opera su Nick Raider, ma sinceramente avevo rimosso il fatto che fossero passati a Tex, soprattutto non ricordavo dell’approdo di Faraci su questi lidi (che si sa, su internet si legge tanto e veloce, ma si apprende poco e male).

Insomma comincio la lettura in modo abbastanza scettico – dopo tanti anni lontano da questo personaggio che ricordo aver abbandonato per noia.
Invero, Faraci mi sorprende. Il suo racconto comincia nel pieno dell’azione e non c’è davvero un attimo di pausa: ogni tre, quattro pagine succede qualcosa. Come se non bastasse in ogni singola tavola c’è una novità, un’indizio funzionale alla storia, che ti invoglia a proseguire per saperne di più.
Non c’è tregua per almeno centocinquanta tavole, e si capisce subito che il punto di forza della sceneggiatura di Faraci sta nei dialoghi e nell’azione. Infatti il suo Tex, pur non discostandosi da quello classico dei miei ricordi, risulta dinamico e fresco. Nessuna parola in più e nessuna pagina di troppo, tutto perfettamente incastrato in una narrazione veloce e serrata, fatta di colpi di scena davvero credibili e situazioni molto reali.
Faraci ci mostra un Tex solitario, senza i soliti compagni di avventure, incentrando lo svolgimento della storia su delle comparse create appositamente per l’occasione. Leggo in rete alcune critiche su questa scelta, su come dopo sessant’anni non si possa tirare fuori dal nulla un amico così intimo come questo sceriffo indiano, di come pesi l’assenza di Kit Carson, ecc…Il fatto è che Faraci dà sempre un’ottima visione corale ai suoi testi, e qua, la mancanza degli illustri pards, che può essere vista come un approccio timido al personaggio, mi sembra invece una scelta molto coraggiosa. La storia ha dei personaggi tutti suoi, vive da sola, ma per risolversi ha bisogno di Tex. Infatti questo racconto non è funzionale per Tex, ma è Tex che è funzionale per il racconto. La riuscita di questa sceneggiatura sta nel fatto che Faraci non “gioca” coi lettori, perché tutti sanno che Tex non subirà un graffio e che risolverà il problema. Questa è indubbiamente la difficoltà principale del lavorare su un’icona del genere che ha sulle spalle seicento numeri di avventure. Faraci si concentra sulla storia e sui personaggi secondari, da credibilità a quello che sta costruendo, e sapientemente inserisce Tex nella vicenda. Ed è un Tex classico come non mai, dai modi di fare alle battute che escono dalla sua bocca; un Tex così lo leggerei sempre molto volentieri.

Lo sguardo di Tex, visto dai fratelli Cestaro