Conversazione con Charles Schulz

Questa intervista a Charles Schulz, condotta da Gary Groth e Rick Marschall, è stata originariamente pubblicata sul numero 31 della rivista “Nemo, The Classic Comics Library”.
La traduzione che vi proponiamo, a opera di Fabiana Bassani, è ripresa dal volumetto “Conversazione con Charles Schulz”, edito nel 1992 nella collana “Dettagli” da Editori del Grifo.

Considerata la lunghezza del pezzo ho deciso di spezzare il post. In fondo alla pagina trovate i link numerati per continuare la lettura.
Buon intrattenimento. -AQ

Marschall: Vorrei sapere se ti rendi conto di quanto sia forte l’impatto dei Peanuts sui tuoi lettori.

Schulz: No, a dire la verità sono molto sorpreso. Mi preoccupo sempre un po’ di questo perché non capisco che lavoro con un mezzo da dove è pericoloso sporgersi, perché ci sono tante persone che semplicemente non leggono i fumetti e che comunque non li considerano come un divertimento dignitoso. Non c’è niente che mi disturbi più di quando qualcuno arriva e mi dice “Mia figlia di 19 anni adora veramente le sue strisce e ancora le legge”. Perché quello è il pubblico che io cerco veramente; e un’altra cosa che mi dà fastidio sono i genitori che vengono da me con i loro bambini di due o tre anni sulle spalle e dicono loro “Guarda, lo sai chi è questo? E’ il papà dei Peanuts” e il povero bambino e io ci guardiamo e questo veramente mi infastidisce. A parte questi episodi, cerco di stare più che posso per conto mio per non doverci pensare e quando mi dicono “Io ammiro tantissimo la sua filosofia”, io letteralmente e onestamente non so di che cosa parlino perché non ho mai saputo quale fosse la mia filosofia.

M: Cercano di leggere qualcosa nelle tue strisce.

S: Questo è giusto. Penso che anche le forme di arte minore come questa, come ha detto anche Robert Short nel suo Il Vangelo secondo Charlie Brown, siano portatrici di certe verità e penso che sia importante, e che la gente dovrebbe poter leggere tutto quello che vuole in ciò che sta guardando o sta leggendo. Ma per quanto riguarda una filosofia generale io veramente non so cosa sia, è pur vero che cerco di disegnare un fumetto delicato, in cui non ci sia niente di crudele, a parte Lucy che strappa un pallone a qualcuno. E non è più un fumetto così critico come una volta. Naturalmente sono diventato vecchio e non sono più tanto provocatorio neanche con me stesso.

M: Tu non metti la tua visione del mondo conscio nel fumetto come invece faceva Harold Gray in Little Orphan Annie, ma il fumetto è ovviamente un riflesso di te stesso. Vorrei chiederti delle tue radici. So che sei nato a St. Paul. Il tuo cognome è Schulz. E’ tedesco? Ti resta ancora qualcosa delle tue origini, o la tua famiglia è qui in America da molte generazioni?

S: Mio padre è nato in Germania, ma era l’unico della famiglia che fosse nato in Germania. Per quanto ne so i suoi genitori andarono per un anno, in vacanza o per qualche altro motivo, in Germania dove lui nacque, ma i suoi fratelli e le sue sorelle sono tutti nati in questo paese. La mia mamma aveva altri otto fratelli e io mi sono sempre considerato norvegese, non tedesco. Penso che mi vergognavo un po’ di essere tedesco a causa della prima guerra mondiale e ho sempre cercato di nasconderlo. Non penso mai alle nazionalità e so che neanche i miei figli ci pensano: credo che se domandassi loro di che nazionalità sono, risponderebbero che sono americani.

Mio padre faceva il barbiere. L’ho sempre ammirato per il fatto che sia lui che mia madre erano andati a scuola per pochi anni e, da quanto mi ricordo delle nostre conversazioni, all’inizio era andato a raccogliere fieno in Nebraska per un’estate, per guadagnare il denaro per iscriversi a una scuola per barbieri. Poi fece ancora un paio di lavoretti e finalmente si comprò la sua bottega di barbiere e credo che a un certo momento gestisse contemporaneamente due negozi di barbiere e un distributore di benzina. Questo accadeva quando ancora non ero nato, oppure ero molto piccolo, quindi non ne so molto, ma naturalmente sono cresciuto durante gli anni della crisi e questo non mi ha toccato personalmente, perché non credo che i bambini sappiano cosa sta accadendo intorno a loro e se tu hai delle focacce per cena pensi che sia bellissimo, perché ti piacciono le focacce, non capisci che probabilmente ce l’hai soltanto perché i tuoi genitori non possono permettersi niente di meglio; ma mio padre gestiva una bottega di barbiere con tre sedie…

M: Per tutto il periodo della depressione economica?

S: Proprio per tutto quel periodo. So che ad un certo punto si trovò indietro con l’affitto di sei mesi, ma me lo ha detto anni dopo. Anni dopo mi ha detto che non era una cosa grave, perché quel grande edificio dove c’era il suo negozio di barbiere aveva tanti altri negozi vuoti, che al proprietario non importava poi molto, pur di tenerne affittato qualcuno. Ma ho sempre ammirato mio padre perché era una persona che si era creata un lavoro e che lo amava. Ricordo che tante volte mi ha detto che gli piaceva alzarsi la mattina e andare a lavorare e penso che si sentisse proprio a suo agio nel suo negozio di barbiere, come quando io sto nel mio studio. Anni dopo ho cominciato a capire che per buona parte questo fatto di sentirsi a proprio agio nel posto dove si lavora non è tanto perché ci piace la nostra occupazione, ma perché ci si sente al sicuro in quel luogo e lui probabilmente aveva la stessa paura di viaggiare che ho io, ma era incapace di esprimerla, però io lo sapevo. Non ho mai avuto l’occasione di parlare con lui di queste cose. Non so se sia grazie a mio padre, ma non ho mai sofferto la mancanza di qualcosa, avevo un guantone da baseball e una bicicletta che mio padre pagò 24 dollari a rate di quattro dollari alla settimana e avevamo la macchina. Non abbiamo avuto mai una macchina nuova di zecca ma…

M: Avevi amici le cui famiglie avevano sofferto negli anni della crisi economica?

S: Non l’abbiamo mai saputo; sai, quando non sei che un bambino e giochi a guardie e ladri e a cowboy e indiani e organizzi i tuoi tornei di baseball.. (non c’era nessuna lega a quei tempi, così tutti i nostri tornei di baseball si svolgevano tra squadre del vicinato. Noi mettevamo insieme la nostra squadra e sfidavamo un’altra squadra del quartiere.) Una volta abbiamo perso davvero 40 a 0 ed è stato da questo episodio che ho tratto l’idea dell’interminabile sequela di perdite di Charlie Brown. Il momento più bello della nostra vita era naturalmente il sabato pomeriggio quando andavamo al cinema locale, compravamo una scatola di popcorn per un nichelino in un negozio poco lontano dal cinema e poi andavamo a queste matinee del dopopranzo e il mio film favorito ricordo ancora, Lost Patrol con Victor McLaglen. Mi piacevano questi film sul deserto ed ecco perché mi piace disegnare Snoopy come un legionario straniero. Non andavamo mai in centro per vedere un film di prima visione. Mi pare che il cinema di prima visione costasse allora sui 35 centesimi e se andavamo qualche volta, la domenica sera, al cinema, era sempre in un cinema dove davano gli spettacoli due volte e dove si pagavano soltanto 15 centesimi a persona.

M: Mi ricordo un cartone di J.R.Williams in cui si vedevano 12 o 15 uomini che stavano seduti insieme al barbiere nel suo negozio. Qualcuno passava sul marciapiede e il barbiere lo chiama dalla vetrina e diceva “Tocca a te, dopo”, intendendo che quello era un luogo dove si riunivano non necessariamente per il taglio dei capelli. Era così il negozio di tuo padre, e tu ci andavi ad ascoltare qualche racconto?

S: No, mio padre non ha mai tenuto quel tipo di negozio dove gli uomini erano solito stare seduti e raccontare quelle che chiamano storie piccanti. Il negozio si chiamava “barbiere di famiglia” e non dava adito a quel tipo di cose, anzi, se lui bussava al vetro della porta e diceva a qualcuno “Tocca a te”, voleva dire letteralmente “Vieni dentro, perché immagino che ti tocchi fra poco e che non dovrai aspettare troppo”. Lavorava veramente tanto e per lui non ho altro che ammirazione, affetto e il ricordo di tutto questo.

M: Vivere a St. Paul negli anni venti e trenta era un po’ come vivere in una piccola città di provincia nel Midwest?

S: Mi sembra che fosse differente: St. Paul non era una piccola città. Ho sempre pensato di essere cresciuto in una vera città. Mi sono sempre considerato un ragazzo di città, sono cresciuto sui marciapiedi, in mezzo alle strade, non in campagna.

M: Non sei mai stato tentato di fare un fumetto cittadino con i Peanuts?

S: Non so dove vivano veramente i bambini Peanuts. Mi pare che in origine pensai di farli vivere in quei piccoli agglomerati per i reduci dove io e Joyce eravamo andati ad abitare quando ci sposammo a Colorado Springs. Adesso non ci penso proprio più. I miei fumetti sono diventati così astratti e sono talmente una produzione della fantasia, che credo sarebbe un errore decidere il posto preciso dove far abitare i loro personaggi.

M: I tuoi sfondi sono effettivamente piuttosto rari e non ti sei mai dedicato a disegnare case o cose del genere.

S: No, non sono mai riuscito a prendere una decisione su come dovrebbero essere fatti questi sfondi oppure gli interni. Ammiro molto la gente che riesce a farli, ma non so mai bene come dovrei disegnarli e per me è sempre stato un problema.

M: Segar faceva quei piccoli tetti un po’ spioventi al di sopra di qualsiasi orizzonte. A proposito di Segar, vorrei spostare il discorso sui fumetti con cui tu sei cresciuto. I tuoi preferiti.

S: Beh, naturalmente Braccio di Ferro, disegnavo un bel Braccio di Ferro da bambino e disegnavo anche Topolino, disegnavo i tre porcellini e stranamente mi piacevano le pantere nere che Lyman Young disegnava in Tim Tyler’s Luck. Ma (mi è venuto in mente proprio oggi), quando avevo circa 10 anni, forse 12, non lo so, non mi rendevo conto dell’importanza del disegno. Mi ricordo di essere andato da certi parenti una sera, giù a Stillwater, Minnesota o a Hudson, Wisconsin. I nostri genitori parlavano e il bambino, che aveva un paio di anni più di me, mi fece vedere la sua cartella di disegni. Sulla copertina della cartella aveva fatto dei cowboy e ne era molto orgoglioso. Io guardavo e pensavo: “E’ molto grazioso”. All’improvviso mi venne in mente che potevo farlo anch’io. Non avevo mai pensato di disegnare qualcosa sulla copertina di un album e cominciai a farlo, e naturalmente quando i miei compagni di classe mi videro disegnare queste cose, dovetti fare disegni per tutti ed era come fare autografi oggi, mi facevano diventare matto. Così, in quegli anni, non avevo capito la gioia che dà disegnare e quello che più si può fare con il disegno e mi ricordo che quando andavo ancora alle scuole superiori, un altro alunno che era più bravo di me aveva illustrato un tema che invece dovevamo scrivere. Aveva fatto degli acquarelli che l’insegnante appese poi intorno alla stanza e quando in qualche modo lei venne a sapere che anch’io disegnavo, mi chiede: “Perché non l’hai fatto anche tu, Charles?” Io non l’avevo fatto per il semplice motivo che pensavo non fosse gentile, sapevo che forse soltanto io e un altro paio di persone eravamo capaci di disegnare e non sarebbe stato bello nei confronti di tutti gli altri fare una cosa del genere. E ci rimasi male che questa insegnante mi avesse rimproverato, seppure gentilmente, per non aver fatto nessun disegno. Insomma mi ci è voluto un bel po’ di tempo per rendermi conto del valore, dell’importanza di saper disegnare e mi sorprende sempre l’idea di quante poche persone sappiano disegnare. Nel corso degli anni, nelle scuole che ho frequentato non ci sono mai stati più di due o tre compagni di classe che sapessero disegnare abbastanza bene e nei tre anni che ho passato nell’esercito posso scommettere di non aver mai visto, in nessuna compagnia o plotone che fosse, una persona che sapesse disegnare meglio di me. Non mi sono mai considerato tanto importante, ma pochi sanno disegnare. Io non credo che si possa imparare. Non credo che si possano dare dei consigli, e parlando a proposito dei fumetti, si possono imparare delle cose che possono migliorare la tua striscia e così via, ma non credo che si possa imparare a disegnare, proprio come non credo che si possa imparare a cantare. O si ha la voce o non si ha. Non è come imparare a giocare a tennis o a golf o a cose del genere.

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