Copertina del libro di Manuele Fior
Grazie a Giacomo Nanni che si è offerto d’intrattenere ed editare, per noi, una lunga conversazione con Manuele Fior.
Presentiamo di seguito la prima parte di questa notevole e interessante discussione fra i due autori:
Nanni Skypes Fior Parte I
di Giacomo Nanni
Ho letto questa estate Cinquemila chilometri al secondo di Manuele Fior (Coconino Press). Quando mi si è presentata l’occasione di pubblicare qualcosa in Conversazioni sul Fumetto è stato il primo a cui ho pensato per una chiacchierata sul suo lavoro. E’ una chiacchierata via Skype che si è svolta nell’arco di tre giorni. Parliamo del suo ultimo libro, di graphic novel, di fumetto in generale. Buona lettura.
Primo giorno [16/09/10]
Manuele Fior: Da dove si parte?
Giacomo Nanni: Bisogna concentrarsi.
MF: Mi sto concentrando.
GN: Partiamo da una cosa. C’è una cosa interessante che avevo letto in una tua intervista. Parlavi della differenza fra fumetto e illustrazione, dicevi che nel fumetto c’è il movimento. Mi piacerebbe approfondire questo aspetto.
MF: Ti riferisci a una domanda che mi era stata fatta, e cioè se anche per me l’illustrazione fosse una specie di tappabuchi per il lavoro di fumettista.
GN: Ma al di là della questione “lavoro”…
MF: Ok, non parliamo di soldi. Diciamo che quando penso al fumetto penso a una dinamica, a un’interazione tra parole e disegno che si può declinare in molti modi. L’illustrazione a cui lavoro generalmente è quella che accompagna un testo, per cui il modo d’interazione è più o meno sempre lo stesso. Se prendiamo per esempio due libri illustrati da me o da te magari vediamo la differenza di disegno, ma dal punto di vista del concetto sono la stessa cosa. Se invece prendiamo due nostri fumetti, ci troviamo la differenza grafica e di concetto, perché facciamo fumetti concettualmente molto diversi.
GN: Vuoi dire che concettualmente l’illustrazione ha una funzione specifica che è indipendente dal disegnatore mentre l’approccio di due diversi disegnatori, anche alla stessa storia, può dare risultati differenti, se si tratta di fumetto, anche dal punto di vista del concetto, perché nel fumetto il disegno influenza la storia, a differenza che nell’illustrazione?
MF: Si’, esattamente. Il disegno modifica la storia, e la storia richiede un certo disegno.
GN: Per esempio i personaggi recitano. Quale margine di improvvisazione ti lasci nel fare recitare i personaggi? Correggi molto il primo storyboard?
MF: Se tu avessi letto tutte le mie interviste sapresti che io non faccio uno storyboard.
GN: Esatto, infatti. Spiegami come fai senza storyboard, ce la fai?
MF: Lavorare senza storyboard non vuol dire che non sai dove andare a parare. Sai più o meno il tema che ti interessa e hai ritagliato dei personaggi con alcune note di carattere che interagiranno tra loro. Non faccio lo storyboard perché non riesco a pensare a una fase di studio della trama separata da una fase di realizzazione grafica. Leggevo in un’intervista che Tardi fa tutta una documentazione folle sulle sue storie e poi arriva la fase “d’esecuzione”, cioè dove ridisegna il tutto. Per me invece il disegno è la fucina delle idee e nei momenti migliori non pianifico neanche cosa succederà nella vignetta dopo. Non lo so, ma guardando le tue cose mi sembra che tu lavori alla stessa maniera, sbaglio?
GN: Sì, in parte, nel senso che lavoro direttamente nel formato della tavola definitiva, ma mi capita di ragionare molto su determinati passaggi e di ridisegnare, anche di cancellare molto. Per questo te lo chiedevo, cioè, disegni direttamente sulla carta da acquarello?
MF: Si, butto via un sacco di roba.
GN: Quindi se devi ridisegnare rifai la singola vignetta o tutta la tavola?
MF: No, per la vignetta attacco una bella pezza e la sostituisco. Ma ogni tanto ho l’impressione che tutta la tavola faccia cagare per cui butto via tutto.
GN: Capisco perfettamente. Io spesso mi limito a correzioni digitali. Ridisegno dei particolari su foglietti che poi perdo, anche su post-it. Scansiono foglietti di 5 centimetri. Per te credo abbia più valore la tavola originale. Cerchi di mantenerla il più integra possibile?
MF: Non sono un fanatico degli originali belli, ma mi piace pensare che la battaglia si combatta sul foglio e non sullo schermo.
GN: Sì, è vero che nel momento in cui ridisegni tutto il risultato finale dimostra più sicurezza. Personalmente ci ho rinunciato.
MF: Ahahahah!
GN: Io mi sono reso conto che anche cose che ritenevo “minori” potevano comunicare qualcosa, per esempio certe tavole in cui non succedeva quasi nulla, che mi sono trovato a disegnare spesso e che mi venivano proprio dal cuore, ma cui non avevo mai dato importanza, cercavo di raccontare cose drammatiche, all’inizio.
MF: Per quelle ci sono io.
GN: Per fortuna. Però tornerei alla questione del disegno: nel tuo stile io ci vedo molto del gusto illustrativo anni 50. Certe spigolosità mi rimandano a quell’epoca, ma ho anche l’impressione che possa essere una sorta di effetto collaterale del tuo utilizzo di forme geometriche semplici e lineari. Così come all’epoca era probabilmente il cubismo ad avere influenzato l’estetica anche popolare si potrebbe dire che sei arrivato a questo risultato non per scimmiottare uno stile vagamente vintage, ma perché hai assimilato un utilizzo di forme le più essenziali possibili. Me lo chiedo. Guardi alle forme o allo stile? Mi riferisco soprattutto a “Cinquemila chilometri al secondo”.
MF: Non lo so, non m’interessa molto il lavoro degli illustratori, mi interessa di più la pittura. Forse perché non ho mai dipinto e mi sarebbe sempre piaciuto che qualcuno me la insegnasse. Per “Cinquemila…” mi ero prefissato di lavorare col colore, lasciare che parlasse sul serio e non usarlo come una decorazione. Se parti dal colore molte cose nel disegno saltano, prima di tutti i contorni. Poi per questioni narrative sei obbligato a semplificare e anche questo modifica il disegno.
Riconosco anch’io che ogni tanto ricordi un tipo d’illustrazione vintage, forse perché all’epoca gli illustratori venivano da una formazione pittorica e la mettevano nell’illustrazione.
GN: Quindi non è intenzionale l’estetica vintage, me lo confermi?
MF: Mi sento di confermartelo.
GN: Anche nella Signorina Else il riferimento è alla pittura, ma in modo anche più diretto.
MF: Oh, ma solo di disegni si parla qua?
GN: Eh, ma ci vuole tempo per parlare delle cose
MF: Va bene.
GN: Prima accennavo alla recitazione dei personaggi, per te è una cosa del tutto istintiva? Voglio dire, tutti noi ci siamo formati fondamentalmente leggendo super eroi, oppure quando andava bene Corto Maltese, oppure, ancora meglio per esempio, Mattotti. Quello che noto leggendoti, è che i tuoi personaggi escono dalla pagina, sono psicologicamente tridimensionali, per il modo in cui si muovono in un modo che non ha nulla a che fare né con il fumetto tradizionale “di genere”, né con la staticità di Pratt, ma nemmeno con l’espressionismo di Mattotti. Pensi che dipenda da letture tue particolari francesi che hai fatto? Roba che magari non conosco?
MF: Mi piace guardare i miei personaggi ad altezza d’uomo, dritti negli occhi. Alla pari. Non li sento come le marionette nel teatrino, visti dall’alto. Ognuno contiene una parte di me, per analogia o contrasto. Uno per esempio fa cose che io non avrei coraggio di fare. L’altro invece mi assomiglia, ma è una donna, quindi reagisce diversamente alle cose. Una volta intuito chi sono, come si muovono (e anche qui molto passa dal disegno), li lascio liberi, soprattutto di farsi male a vicenda.
Forse la cosa che più mi ha influenzato in questo non è tanto il fumetto, ma i film di Truffaut, dove i personaggi hanno quella spigliatezza cosi’ reale, che anche se non fanno niente di particolare ti tocca.
I tuoi personaggi invece sono tu e il gatto e Lara Canepa. Al gatto non puoi fargli niente perché è morto, devi fare del male a te stesso o a Lara Canepa.
GN: E’ possibile.
MF: A Lara gliene fai di tutte i colori. Perde il lavoro, la casa, meno male che c’ha l’angelo custode. Lo vorrei anch’io.
GN: Sì, nelle tavole che ho iniziato a pubblicare sul blog ho dato sfogo a certe “fantasie punitive”, se si possono chiamare così.
Secondo giorno [17/09/10]
GN: Vorrei parlare di quanto la tua esperienza sia stata filtrata in “Cinquemila chilometri al secondo”. Parliamo dell’Egitto.
MF: Dal punto di vista dell’esperienza, in “Cinquemila chilometri al secondo” ho vissuto di rendita. Il libro è ambientato in due dei posti cui ho vissuto negli ultimi anni, la Norvegia e (a singhiozzo) l’Egitto. Sono state delle esperienze molto forti. Chiedevano di venire alla luce. Le vicende sono del tutto inventate, ma gli scenari sono fedeli. Soprattutto in Egitto sentivo di dover fermare sulla carta dei posti o delle situazioni troppo belle per essere dimenticate. L’aver fatto tanti lavori e aver viaggio e vissuto nei posti più disparati ha costituito un tesoro prezioso.
Ora mi sto abituando a lavorare diversamente, perché faccio il fumettista come lavoro (ho paura nello scriverlo) e di fatto sto attaccato al tavolo la maggior parte del tempo. Devo trovare nuovi pretesti per sguinzagliare una storia.
GN: Quindi pensi che potrebbe venire a mancarti della materia prima, nel proseguire con il lavoro di disegnatore? O è solo una paura dovuta forse all’inesperienza? Pensi che si possa raccontare di cose che non si sono conosciute approfonditamente? E’ una domanda semplice, ma non è detto che si sappia rispondere.
MF: No, è una domanda difficile. Devo dirti la verità che la paura c’è. Mi ronza spesso in testa quel consiglio di Hemingway a un aspirante scrittore: “cerca ti impiccarti su un albero, se sopravviverai avrai qualcosa da raccontare”. Ho paura di non aver cose da dire, si’. Poi, pure vivendo in maniera stanziale uno comincia a fare le sue osservazioni sulla realtà, e la vita stessa cambia, per cui questo diventa già un nuovo tema da esplorare. Ma la paura c’è. Reinold Messner alla domanda: “dopo tante sfide sulle montagne più pericolose, che cosa le fa più paura?” rispose: “la vita borghese”.
GN: Non conoscevo la massima di Hemingway, ma so che a Dostoevskji era successa veramente una cosa simile, essendogli stata risparmiata l’impiccagione all’ultimo momento durante la prigionia in Siberia. Ecco, siamo alla terza citazione in poche righe. Non credi che un autore di fumetti abbia ambizioni tutto sommato superiori alla media degli autori di qualunque altra disciplina artistica, se oltre a disegnare gli è richiesto di saperne di scrittura e probabilmente anche di cinema? Credi che le aspettative siano adeguate alla realtà della situazione?
MF: Oddio, non lo so. Quello che mi sembra è che il fumetto di oggi prenda bene il polso della situazione. Ci sono stati momenti tipo gli anni 60-70 in cui la musica popolare era legata a doppio filo con i cambiamenti sociali, insomma era una buona testimone dell’epoca. Ora invece per quanto vedo, la musica ha perso questa affinità, è diventata autoreferenziale. Per la pittura non ti saprei citare un pittore contemporaneo influente perché non lo conosco. Pure il cinema italiano non mi sembra che faccia molto. Il fumetto invece si’, soltanto che non lo legge quasi nessuno (in Italia).
Mi sembra strano che tu mi dica così’. Sinceramente penso che quello che fai tu sia fumetto allo stato puro, senza complessi di inferiorità verso la letteratura o il cinema.
GN: Te lo chiedo, perché credo che ci sia il rischio di affrontare superficialmente le cose. Voglio dire che se fai lo scrittore sei tenuto ad interessarti di letteratura, se fai cinema di cinema e così via, mentre per chi fa fumetto interessarsi di fumetto non è sufficiente. Questo perché se devo servirmi del linguaggio di Disney per raccontare degli stati d’animo, per esempio, sono destinato a fallire, è ovvio, ma non mi è nemmeno sufficiente il linguaggio di Mattotti, per fare un esempio. Questo perché il linguaggio di Mattotti è specifico di un mondo che lui ha creato. Nel quale vivono quei personaggi lì, le cui emozioni sono espresse in quel modo lì, che non puoi fare a meno di riferire a lui, al suo stile. Quindi suppongo che un autore di fumetti sia destinato ad inventare di sana pianta un proprio linguaggio, senza potere fare affidamento ad una tradizione specifica. Quindi deve per forza interessarsi degli elementi (disegno e scrittura) che hanno formato a loro volta il fumetto nel corso del tempo. Voglio dire che è ibrido, l’ho già detto?
MF: Pur non essendo un lettore appassionato di fumetti, sono un lettore appassionatissimo di alcuni fumetti. Se leggo Paperino di Barks mi sembra che non gli manchi niente, e magari lui non ne sapeva un tubo di letteratura. O Calvin e Hobbes, o i Peanuts, sono mondi a parte, non dipendono da niente, sono già perfetti cosi’. Perché bisogna sempre cercare di dare rispettabilità al fumetto facendolo dipendere dalle “arti maestre” ? detto questo mi sa che stiamo un po’ divagando…
GN: Dici che stiamo divagando? Per esempio, tornando al tuo libro, hai utilizzato una serie di espedienti per descrivere l’Egitto che non funzionerebbero nella pittura, o nella letteratura, ma solo nell’ambito del tuo libro a fumetti, perché ad esempio non ci sono dettagli tanto precisi del luogo, ma c’è la suggestione delle inquadrature e dello stato d’animo del protagonista.
MF: l’Egitto che ho disegnato é un Egitto ricordato, come faccio sempre, non copiato dalle foto. E’ trasfigurato dalla memoria, dai sentimenti, l’opposto del fumetto giornalistico. Lo so che è un mio limite, ma ancora non sono riuscito a fare altrimenti.
Fine prima parte.
Leggi la seconda parte.
Illustrazione di Manuele Fior