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Essere o non essere [Patrice Killoffer]? Affinità e divergenze tra le 676 apparizioni e l’Amleto di De Luca

No! lo non sono il Principe Amleto, né ero destinato ad esserlo;
Io sono un cortigiano, sono uno
Utile forse a ingrossare un corteo, a dar l’avvio a una scena o due,
[…]
Pieno di nobili sentenze, ma un po’ ottuso;
Talvolta, in verità, quasi ridicolo –
E quasi, a volte, il Buffone.

                T.S.Eliot, Il Canto d’Amore di J.Alfred Prufrock

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Da un’intervista a Glyn Dillon

Di seguito un estratto dal blog del nostro caro smoky man, che ha pubblicato una traduzione di un’intervista di Paul Gravett a Glyn Dillon, l’autore di The Nao of Brown, libro del quale abbiamo dato l’annuncio in anteprima della pubblicazione italiana da parte di Bao Publishing (QUI). -AQ

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Cartoline dal Napoli Comicon

di Daniela Odri Mazza

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Speciale Asterios Polyp: sbloccando le possibilità del linguaggio fumettistico

di Paul Gravett

traduzione di Silvano Uncini

Continua il nostro speciale su Asterios Polyp, questa volta con un articolo di Paul Gravett. Il pezzo, apparso sul blog del critico, fa ovviamente riferimento al 2009, anno in cui il volume uscì nella sua edizione originale.

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Wilson secondo Paul Gravett

Ho recentemente contattato Paul Gravett, a cui ho chiesto se potevamo proporre alcuni suoi scritti sulle nostre pagine. Lui è stato molto disponibile e così quale miglior modo per iniziare, se non pubblicare un suo articolo su Wilson di Dan Clowes?

Estratto da “The Dead Muse” di Eddie Campbell

Prima però due note su Paul Gravett: londinese, giornalista free-lance, scrittore e curatore, ha lavorato nell’editoria fumettistica a partire dal 1981. Dal 1983 al 1989, assieme a Peter Stanbury, pubblica la rivista Escape che propone il meglio del fumetto alternativo di quegli anni. Con la sua Escape Publishing coedita volumi come Violent Cases di Neil Gaiman e Dave Mckean e tre albi dell’Alec di Eddie Campbell. Dal 1992 al 2001 è stato direttore del Cartoon Art Trus, associazione benefica che supporta e promuove il meglio del fumetto Inglese anche attraverso la creazione di un museo.
E’ stato curatore di diverse mostre fumettistiche in Inghilterra e in Europa. Dal 2003 è il direttore del Comica, il festival internazionale del fumetto che si tiene a Londra.
Paul, assieme a Peter Stanbury, ha scritto i seguenti libri: Manga: 60 Years Of Japanese Comics (2004), Graphic Novels: Stories To Change Your Life (2005), Great British Comics: Celebrating A Century Of Ripping Yarns & Wizard Wheezes (2006), The Leather Nun & Other Incredibly Strange Comics (2008) ed è l’editore di The Mammoth Book Of Best Crime Comics (2008).
Parallelamente continua a scrivere di fumetto per riviste come: The Guardian, The Times, The Independent, The Daily Telegraph, The Comics Journal, Comic Art, Comics International, Time Out, Blueprint, Neo, The Bookseller, Dazed & Confused, New Internationalist, Third Text, 9eme Art and The Jewish Quarterly.

Wilson
di Paul Gravett

traduzione di Katia Zaccaria

Nel Maggio 2010, Daniel Clowes visitò il Regno Unito per promuovere la sua prima graphic novel tutta originale, Wilson, pubblicata il 27 maggio nel Regno Unito da Jonathan Cape, partecipando a due eventi speciali di Comica insieme a Chris Ware. Prima di tutto hanno avuto una conversazione con la scrittrice/autrice di graphic novel Audrey Niffengger al Cochrane Thatre, a Londra, il 24 Maggio. Poi hanno chiacchierato con me a Brighton, al Corn Exchange il Martedì 25 Maggio. Maggiori dettagli li trovate sul sito di Comica.

Niente è lasciato al caso nei libri di Daniel Clowes. Considera tutto con attenzione, fino al minimo dettaglio del design. E questo è certamente vero nella sua ultima graphic novel, la prima a non essere serializzata da nessun’altra parte. Detto questo, Clowes può non aver anticipato alcune associazioni britanniche del formato harback A-4, con copertine laminate e lucide, su cartoncino spesso e con un sostanziale numero di 80 pagine al suo interno, che mi ricorda, e probabilmente ricorda a molti britannici, un certo vintage dei molto amati annual natalizi per bambini, che siano il Desperate Dan pubblicato su The Dandy o HuckleberryHound (Braccobaldo in Italia) di Hanna Barbera.

Wilson, il titolo e il nome (presumibilmente) del nuovo protagonista di Clowes, appare in una varietà di font disegnati a mano, una volta sulla prima di copertina, quattro volte in dimensione piena sulla quarta, e non meno di 98 volte in diverse dimensioni su tutte e tre le pagine finali, fronte e retro. Da nessuna parte il nome viene tagliato dal margine della pagina o nella costa, è sempre intero. Wilson è ripetuto altre tre volte all’inizo, una volta per ogni pagina destra, finché non si arriva finalmente a pagina uno del graphic novel. L’ultima volta è stampato in uno stile finto illuminato, lo stile del lettering da “parco giochi”, in giallo completato da cerchi di lampadine. Wilson, come un titolo, un nome e un personaggio è, insistentemente al centro del palco, l’attrazione principale. E’ ora di andare in scena.

Altrettanto non accidentale è la chiusura del libro, dopo il finale dell’episodio sulla destra e prima dell’ultima pagina con autoritratto e biografia di Clowes. Queste sono due pagine completamente bianche, sicuramente non un eccesso casuale dovuto al fatto che Clowes ha completato il racconto prima, ma un vuoto ambiguo, cancellazione, rivelazione, dissolvenza in bianco, da interpretare come volete. Infatti, Clowes mi ha confidato che non aveva consciamente pianificato questa espansione di bianco nel finale, ma che questo derivava dalla suo ridurre il numero di strisce infine scelto per il libro. Ha rimontato molte pagine inutilizzare in un due pagine di “scene cancellate” per la rivista The New Yorker.

Per tutto Wilson, Clowes rimane fedele a una griglia a tre strati di vignette, da sei a otto, ma mescola anche le sue combinazioni di colore, sfumando di tanto in tanto la sua scala colori fino al nero e ad una sola tonalità raffinata, a volte con un panna pallido, o una tinta grigia, a suggerire un differente tipo di carta o un quotidiano scolorito. Clowes narra lo sviluppo del suo personaggio in ordine cronologico dalla mezza età fino alla vecchiaia, attraverso 71 strisce da una pagina in stili contrastanti, dalla deformazione cartoonistica dei grossi nasi e dala stilizzazione, con riferimenti a Charles Schulz, Mort Walker e EC Segar tra gli altri, fino a una resa sorprendentemente quasi realistica, con linee fini. Quest’ultima offre un inusuale distacco dal passato fumettistico di Clowes, rivelando un talento per: le naturalistiche e delicate osservazioni nel ritrarre lo sguardo accusatorio e inquietante del padre morente; una scena imbarazzante in camera da letto, quando un Wilson che ha cominciato a perdere i capelli scopre il tatuaggio della fidanzata che sta dormendo; o semplicemente i peli trascurati che spuntano dai lobi delle sue orecchie nel ritratto di apertura a doppia pagina. Per me, questa sensibilità toccante è uno sviluppo eccitante e cruciale nella maturazione della tecnica di disengo di Clowes.

Naturalmente, Clowes è un maestro dei fumetti comici, e conosce le loro regole e convenzioni. La sua scelta delle gag su una sola pagina corre il rischio di rafforzare un modello prevedibile ai fini della narrativa, con l’ultima vignetta che offre regolarmente la battuta che stravolge la storia, spesso preceduta da una vignetta di pausa o che anticipa la gag che segue. Ma Clowes mina queste aspettative molto presto già alla terza striscia, cambiando improvvisamente il disegno, la luce (improvvisamente è notte, con Wilson quasi completamente in silhouette), e soprattutto il tono. Con pungente sincerità, il suo solitario camminatore nella notte ricorda esitante la morte della madre. Niente risate qui, gente. Se parlare a sé stessi è il primo sintomo di follia, allora Wilson si qualifica tale. Sia da solo, che adescando sconosciuti o conversando, spesso senza interazione, con amici e persone care, è quasi sempre insensibile e per niente imbarazzato, le nuvolette coi suoi discorsi dominano ogni pagina e ogni episodio (senza nessuna nuvoletta di pensiero in vista). Più vediamo le diatribe aspre o gli incontri imbarazzanti di Wilson, più la sua vita disordinata, compromessa e disillusa diventa chiara. E’ solo al centro del suo universo, e secondo il suo punto di vista, è al centro di quello di tutti gli altri.

E’ difficile evitare di chiedersi se almeno un po’ di Wilson derivi dallo stesso Clowes. Sembra probabile che sia un ennesimo alter-ego, portavoce o personaggio ispirato più o meno dalle osservazioni dell’autore e forse dalle riflessioni su un intervento chirurgico di qualche anno prima che risolse un problema cardiaco, dandogli quasi una nuova speranza di vita. Dalle prime due pagine, sappiamo già che il personaggio risiede a Oakland, California, e ha un cane come Clowes, che lo rivela nella biografia in ultima pagina. Un altro indizio è, come capitò con Enid Coleslaw di Ghost World, che Wilson è un anagramma parziale del nome di Daniel Clowes stesso. Non sappiamo il cognome di Wilson (sembrerebbe che Wilson sia il suo nome, dato che tutti gli si rivolgono così). Per completare l’anagramma, il cognome di Wilson potrebbe essere stato Deacle, Caldee, Dale EE, forse. O Clowes avrebbe potuto rimescolare ancora ogni lettera e creare Wes Loincland, Lois Neecwald, Declan O’Lewis…

Lavorando con la restrizione della striscia da una pagina con sei-otto vignette, Clowes costruisce sapientemente battute continue (sull’amore-odio delle donne grasse, sull’orrore verso l’impetuoso ritmo del cambiamento e in particolar modo sui saloni di ricostruzione unghie e sul “modo terribile in cui vive la gente”), a volte seminando la prima parte della battuta il cui esito finale segue molto in là. Usa anche il girare pagina per mettere in atto alcuni spassosi salti in avanti nel tempo e nella storia, costringendo il lettore ad apprezzare l’arrivo della consapevolezza e unendo i puntini. Un tema in sottofondo, nonostante la misantropia e anomia di Wilson, è il desiderio sincero di connettersi con gli altri, di trovare un senso di appartenenza e significato nella sua vita. Con destrezza e satira, Clowes ha davvero creato una ricerca sottilmente esistenziale, quasi spirituale, anche se probabilmente lo ammetterebbe con riluttanza. Il sesto capitolo introduce il mondo spirituale, mostrando Wilson che siede e guarda uno specchio d’acqua dove i suoi genitori erano soliti andare:
“Non ho mai veramente capito cosa guardassero, ma sembrava gli desse un qualche riempimento spirituale. Suppongo che forse cercassero di connettersi a qualcosa di più grande, qualcosa di vasto ed eterno”. Questa prima istanza finisce con la battuta di lui, che se ne va via e mugugna, “Fanculo, è una cosa davvero pallosa.” Ma la ricerca della parentela e il simbolo dell’acqua crescono gradualmente nel libro, in quanto Wilson perde il padre e ora assolutamente solo, cerca di riallacciare i rapporti con la sua ex-moglie Pippi, e con la loro figlia, che Pippi ha adottato. In un punto, torna con loro su un molo al limite dell’acqua, mentre nella scena successiva la mancanza di sentimenti materni di Pippi verso la figlia è evocato brillantemente dalla piscina vuota del motel vicino alla quale lei e Wilson siedono. L’acqua ricorre in alcune occasioni, da un tetto che perde a un canale, da un lago alle gocce di pioggia che scorrono su una finestra.

Anche l’irritazione e l’incertezza nei confronti della religione traspaiono tramite il personaggio di Wilson. Tanto per cominciare, bestemmia un sacco, e soprattutto usa tutte le imprecazioni cristiane riferite a Dio, come “che sia dannato” e “all’inferno”, e in particolare a Gesù, incluso, Cristo Santo e fottuto, niente meno di 23 volte in totale. Orgogliosamente miscredente, ci mette poco a prendere in giro la fede altrui, e ciononostante compone una elegia divertente e toccante allo stesso tempo, concludendo con un Amen da preghiera, verso il suo compagno più amato, il suo cane Polly. La religione può aver fallito, lasciando un vuoto spirituale nella nostra società atomizzata, ma Wilson sente che manca qualcosa, che diventa sempre più importante con l’avanzare dell’età.

Clowes mantiene distacco e sobrietà, evitando di mostrare in toto alcuni dei momenti più emotivi della storia. L’unica lacrima di Wilson si distingue appena poiché Clowes cambia deliberatamente la visione frontale del suo volto mostrandone profilo. La scena in cui ricorda la morte di sua madre si svolge al buio. Clowes consapevolmente zoomma indietro nell’ultima vignetta del penultimo episodio, evitando qui di mostrarci l’espressione del Wilson invecchiato. Per la pagina finale, ci mostra solo parte del volto di Wilson da sopra la sua spalla. Nel raccontare questi sprazzi finali della vita, è il contrasto del confronto provocatorio faccia-a-faccia con questi momenti distaccati di vulnerabilità e speranza che in fondo ci portano a capire e addirittura voler bene a questo uomo frustrato e pieno di difetti, e forse a curarci un po’ di più del nostro prossimo.

Dunque, che cosa ne farete delle due pagine finali?

Link al post originale dell’autore.

Abbiamo parlato di Dan Clowes nei seguenti post:

Clowes sul termine “graphic novel”
Clowes, intervista su “Wilson”

Appunti su Wilson

Ghost World: “Sei diventata una splendida giovane donna”
Wilson secondo Paul Gravett
Ice Haven: il romanzo a strisce
Dan Clowes al tavolo da disegno
Wally Wood e Daniel Clowes
Modern Cartoonist (il famoso saggio di Clowes tradotto per voi)