“Io non faccio graphic novel, io faccio fumetto”. Intervista a Paolo Parisi

di Tonio Troiani

Dopo il successo internazionale di Coltrane, abbiamo deciso di fare una chiacchierata con Paolo Parisi, anche per scoprire i suo progetti futuri.

Il tratto fumoso e grasso che tratteggia la corpulenta massa del contrabbasso di Garrison è l’ideale introduzione a questa intervista*. Lo sguardo di Jimmy Garrison è oscuro, imperscrutabile: trasuda tutta la sua concentrazione e il suo malinconico e meditabondo fraseggio. A love Supreme, dopo una fanfara di sax lascia spazio all’ostinato introdotto da Garrison: un tema semplice, una cellula primordiale da cui si irradia una preghiera d’afflato cosmico. Opera immensa, che non ha bisogno di parole, se non di una silenziosa contemplazione.

Eppure, Paolo ha rischiato due anni fa volendo pubblicare una sua peculiare e personale interpretazione della suite-capolavoro di Coltrane, vincendo la scommessa.

Ora che siamo alla terza edizione estera (dopo quella inglese e francese) è il tempo di tirare le somme e capire in che direzione si muove il suo discorso.

Partiamo dal tuo ultimo progetto, Back to the Soul. Ti sei confrontato con la grande tradizione soul ritraendo le più grandi interpreti del blues e del soul. Sembra delinearsi un legame con il tuo precedente lavoro dedicato a Coltrane. Da dove nasce questo profondo interesse per la musica“nera”? È una ricerca destinata a protrarsi nel tempo?

BACK TO SOUL è una mostra che nasce qualche anno fa con una personale a Bologna, comprendeva la prima serie di una ventina di ritratti di artisti jazz e blues al femminile.  In seguito, i curatori della galleria Spazio Meme mi hanno proposto di riprendere in mano quei lavori e ampliarne il percorso. Credo sia un tributo alle voci che amo e che ascolto abitualmente, un riportare alla luce restituendo importanza e giusto valore a figure che si muovevano in un mondo prevalentemente “maschile” come quello del roots blues e del jazz.

Da dove nasce l’interesse per la black music non saprei. Posso dirti cosa rappresenta per me: beat come appartenenza e legame culturale, storie, e tradizione orale.

Il blues si sviluppa in un contesto di schiavismo e sfruttamento, di secoli di oppressione che lasciano segni indelebili. Muddy Waters diceva che “il blues nasce dalla fame e dalle pene d’amore”.
Il jazz è popolare, nasce come intrattenimento nei bordelli e nei locali “poco rispettabili” dei primi importanti agglomerati urbani. E negli anni Sessanta diventa il mezzo di lotta principale per i diritti civili degli afroamericani (penso a Archie Sheep o Charles Mingus).
E cos’è il rap se non oralità, storie, sfida, botta/risposta? Anch’ esso come forma di espressione nasce in un contesto simile (con uno scarto di decenni): i famosi block party nel Bronx, NYC.

Credo che tutto questo rientri nel mio discorso di fare fumetti condivisi che siano popolari, di intrattenimento, che rientrino in una sfera di tradizione della fiction, ma che abbiano con sè la potenza di una struttura densa di storie e vissuto. Per condivisi intendo uno stretto rapporto con l’uso della rete, social network, blog ecc che diventano parte integrante dell’opera stessa.

Ritornando, invece, su Coltrane, possiamo notare un buon successo, soprattutto estero, con ben tre edizioni. A due anni di distanza dalla sua pubblicazione, quindi, si può ritenere vinta la scommessa: a tuo avviso, cosa rende così accattivante il libro? Forse, l’universalità del linguaggio di John Coltrane o cosa?

Tre edizioni e ne sono in trattativa altre (però non so dirti quando e se vedranno la luce). John Coltrane per me rappresenta una guida, un modo di affrontare l’arte, di essere e di esprimersi, oltre che un amore viscerale per tutto quello che ha registrato. Il libro è nato in questa direzione: non bastava una semplice biografia, sentivo l’esigenza di evocare un ponte tra musica immagine e testo.
Cito due musicisti che colgono a pieno il concetto di universalità del linguaggio, Ornette Colamen: “I think that sound has a much more democratic relationship to information, because you don’t need the alphabet to understand music” e Charlie Bird Parker: “Music is your own experience, your own thoughts, your wisdom. If you don’t live it, it won’t come out your horn. They teach you there’s a boundary line to music. But, man, there’s no boundary line to art”.

Quando ho letto il graphic novel ho provato a seguire i tuoi consigli e devo ammettere che ogni cellula narrativa sembra ricalcare fedelmente l’andamento della suite. Soprattutto, la distruzione della linearità cronologica degli eventi dona una liquidità quasi musicale alla narrazione. Ma, nel contempo richiede una certa attenzione da parte del lettore. E’ come si fosse un duplice andamento da un lato un flusso quasi istintivo, dall’altra una costruzione ferrea quasi geometrica che disponeva il materiale per richiami interni. E’ qualcosa che è nato per mimesi a partire dallo studio della suite o ha una natura totalmente indipendente?

Musica-immagine-testo. La scelta di A Love Supreme, 1964, non è casuale. Il suo disco più conosciuto, lo spartiacque, ha la particolarità di essere l’unico diviso in 4 parti (e non semplici tracce) che tendono a formare un’unica suite, una sorta di passaggio o percorso che apre la via a nuove strade (l’anno successivo, 1965, è la volta di Ascension). Immediatamente ho pensato a 4 parti = 4 capitoli da quali partire per sviluppare un discorso “sonoro” su Trane, la sua vita, il suo iter artistico.

Discorso “sonoro”: il fumetto è un mezzo “muto”. Ma “Silenzio” è “Suono” e non assenza di esso, ce lo insegna John Cage. L’immagine quindi diventa predominante per creare, modificare, evocare un immaginario che nell’istante stesso in cui è rappresentato è vero, reale, tangibile, sonoro. Da qui la scelta di usare le foto come parte integrante di quel mondo dei jazz club, delle session di registrazione, delle copertine degli LP e dei relativi interni o booklet. Inoltre, come ben sottolinei, c’è un parallelo tra geometrie e una sorta di stream of consciousness. L’idea che l’improvvisazione sia un metodo necessariamente “casuale” o che si crea “sul momento” è diffusa. In realtà sappiamo bene che l’improvvisazione richiede un alto livello di conoscenza e uso del mezzo (tonalità, accordi, scale, strumento, respiro, battito, musica d’insieme, composizione ecc). Cioè è possibile “improvvisare” solo se hai un pieno controllo di cosa stai facendo, controllo che ti permette di andare oltre senza saperne la direzione. Il controllo del mezzo crea geometria, l’uso “improvvisato” ne crea frazionamento, rottura, salti, montaggio sincopato.

Quindi vari livelli di lettura: c’è il disco, un lavoro sull’improvvisazione, quello sull’icona e sulle foto del jazz, il lavoro sul suono. Tutto questo è parte integrante di Coltrane. Fermo restando che ogni lettura ha il suo beat.

Parli, di “beat” sia come appartenenza ad un qualcosa, sia come “respiro” personale, cioè in senso stretto come capacità del lettore di gestire lo spazio-tempo del medium fumettistico. Mi piacerebbe capire se la metafora della poliritmia è per te applicabile al fumetto e soprattutto al tuo Coltrane.

Beat è battito, ritmo, spazzole sulla pelle del rullante. Le categorie servono alla mente umana per sintetizzare e archiviare la realtà, in qualunque livello di lettura (da genere letterario a scaffale di libreria a etichetta creata dal mercato). Penso alla Beat Generation, termine tirato fuori da Kerouac, Ginsberg, Corso ecc reso multiplo di significati dagli stessi. Quindi appartenenza a una generazione, a un gruppo.

Beat è Crepax, l’autore bebop per eccellenza. Dinamismo, scomposizione, montaggio si susseguono come un solo di contrabbasso di Ray Brown.
Tutto quello che esce da Crepax “suona”, è vivo, pulsa, respira, puoi sentirne il rumore, il taglio delle vignette, lo schiocco di dita ritmato. Puoi sentirne l’erotismo e l’eleganza. Ma questo sentire è soggettivo e individuale, è frutto della lettura e del meccanismo che essa innesca, stimolando il nostro immaginario a renderla reale.

Coltrane è poliritmico. Ha una gabbia fissa, 3 strisce, che funge da standard, palestra per eccellenza di un musicista che vuole farsi le ossa nell’improvvisazione. Coltrane ha dei tempi morti, ha delle dilatazioni e dei rimandi. Ha dei respiri ampi e profondi come un attacco di Miles, ha delle carrellate veloci, taglienti con un solo di Ornette. Tutto però è dettato dal proprio sentire, dal TUO battito.
Il riferimento a Cage è 4’33”, il brano culmine di questo tipo di esperienza. Ogni ascoltatore viene immerso nel suono dell’ambiente circostante, nel suono del proprio corpo, della propria individualità. Un processo simile, perchè no?, a quella della lettura.

Tutto ciò non so se regge. So solo che sarebbe affascinante trovare contatti tra due mondi apparentemente lontani ma, a mio giudizio, adiacenti.

Tipo quando parli di poliritmia a me sovviene la sequenza di pagina 56-57: didascalia lenta/flusso ipercinetico con un montaggio rapsodico e forti suggestioni melodiche…Qua il beat è sia scandito che dipendente dal lettore, che può anche perdersi nei particolari. Per quanto riguarda il silenzio si manifesta di solito dinanzi alle grandi figure femminili, è un caso? 

Credo sia un caso. Oppure, è il tuo beat che te lo suggerisce.

Tra i diversi episodi che ha scelto di includere nel romanzo ce ne sono due che hanno attratto la mia attenzione: l’intervista rilasciata da Coltrane a Frank Kofsky nel primo capitolo del libro e le critiche mosse a Davis e Contrane per la presenza di Bill Evans nel quintetto di Kind of Blue. Sono due aspetti del medesimo problema: da un lato c’è un Coltrane incurante rispetto all’identità culturale che sta costruendo con il suo lavoro, dall’altro una comunità che invece non accetta la presenza di un bianco all’interno di un progetto di totale emancipazione della popolazione afroamericana da qualsiasi idea precostituita di negritudine. L’elemento politico è sotteso, ma non preponderante: è una tua precisa volontà quella di mostrare in maniera quasi fotografica il tutto?

Non credo che per fare politica sia necessario fare riferimento alla politica. Trane non è mai stato un musicista esplicitamente schierato (l’unico caso è Alabama, brano del 1963 scritto poco dopo il drammatico attentato del Ku Klux Klan alla 16th Street Baptist Church di Birmingham, in Alabama), piuttosto ha concentrato le sue energie in due direzioni:

1) scomporre se stesso quasi alla ricerca di un atomo, un’origine sonora che sia elemento generatore delle Cose. Se ascolti My Favourite Things nel 1960 e poi le versioni live in Giappone nel 1966. Stesso titolo ma brani irriconoscibili.

2) aprirsi verso la nuova generazione di musicisti: la New Thing, Eric Dolphy, Albert Ayler, Archie Sheep, Pharoah Sanders, farli suonare, dargli spazio e attenzione mediatica, la New Thing che rifiuta l’etichetta free jazz perchè espressione di sfruttamento del mercato bianco nei confronti della musica nera (vedi “Black Music, White Business” di Frank Kofsky), la New Thing che urla: “Noi non suoniamo jazz, noi suoniamo la nostra musica” (“Io non faccio graphic novel, io faccio fumetto“).
I riferimenti alla storia statunitense ci sono ma non possono essere l’elemento predominante. Noi siamo immersi, siamo parte di un contesto all’interno del quale ci muoviamo. La maniera più onesta di parlarne è evocare certi momenti chiave, renderne una sintesi, un particolare che crei il tutto.

Hai nominato Frank Kofsky. Elemento fondamentale che mi ha accompagnato per tutta la lavorazione è stato “ascoltare” la voce di Trane. L’idea comune che si ha di un musicista coincide con i suoi brani, la sua musica, il suo sound. Ma quanti pensano come prima cosa alla voce, alle parole, alle opinioni. Ascoltare la registrazione dell’ultima intervista mi ha aiutato a creare una connessione che fosse umana e non solo musicale.

A proposito sempre di negritudine, la cosa che più ho apprezzato è la maniera in cui hai gestito il ruolo di narratore in tutto ciò. Ultimamente, ho letto Lomax di Duchazeau o Il silenzio dei nostri amici di Long e Powell ambientato quasi negli stessi anni della maturità artistica di Coltrane, il problema politico o culturale è sempre visto da un punto di vista troppo bianco, nel tuo lavoro, invece, no. Qual è la tua idea a riguardo?

Lomax è un bel libro. Il silenzio dei nostri amici non l’ho letto. Il discorso di avere un punto di vista “bianco” credo sia inevitabile. Siamo cresciuti in una cultura “bianca”. Ho Che Anderson, autore di colore del libro “Martin Luther King”, alla domanda sul perchè non ci siano molti disegnatori di fumetti neri, ha risposto: “perchè un lettore nero non si sente rappresentato da un supereroe bianco”.
Come dicevo poco fa il tutto sta nel capire di cosa stiamo parlando: appartenenza. Il jazz porta con se un carico di disperazione e di rivalsa che rimane uno dei mezzi principe per esprimere tale oppressione sociale.

Per concludere, vorrei chiederti, quali sono i tuoi progetti futuri e se incroceranno ancora prepotentemente la musica.

A breve partirò per Buenos Aires dove mi dedicherò alla documentazione e stesura del prossimo libro, basato sulla vita di Hector German Oesterheld e il suo El Eternauta.
Non sarà una biografia, piuttosto un lavoro sulle potenzialità della fiction. Quanti termini spesso sono inappropriati: “graphic journalism”, “reportage”, “cronache”, “autobiografismo”. Tutto ciò divide l’editoria in due grandi famiglie: o fumetto d’intrattenimento o fumetto culturalmente alto (o che vorrebbe essere tale).

Joe Sacco è un giornalista prima di essere un disegnatore di fumetti e ha scritto un bellissmo reportage come “Palestina”. Munoz e Sampayo sono autori di fumetti che attraverso la fiction raccontano la loro condizione “clandestina” e la loro vita tumultuosa. H. G. Oesterheld è la chiave di tutto, attraverso El Eternauta è riuscito a dare nuova veste al fumetto di genere, senza tralasciare il contesto sociale che ha generato tali storie. C’è però una domanda a cui non so dare risposta: è El Eternauta ad entrare nella storia dell’Argentina o è la storia dell’Argentina ad entrare ne El Eternauta? Io non sono un giornalista, io scrivo storie e la forza di tali storie sta nella finzione di essere vere.

Ho deciso di tenere una sorta di work in progress utile sia per avere un archivio dove raccogliere il materiale di documentazione, sia se qualche lettore o curioso fosse interessato a saperne di più.
Qui di seguto il link: http://www.paoloparisi.org/oesterheld/

p.s. Abbiamo approfittato di Paolo per chiedergli una playlist di pezzi da affiancare alla lettura di questa intervista o meglio per entrare nell’universo sonoro che si agita sotto il silenzio dei suoi disegni

1) Carla Thomas “Baby” (1966)

2) Ben Webster Quintet – Soulville (1957)

3) Ornette Coleman – Blues Connotation (1961)

4) Ann Sexton – You’re Losing Me (1973)

5) James Brown – Say It Loud – I’m Black and I’m Proud (1968)

6) Charles Mingus  – Fables Of Faubus  (1959)

7) Gato Barbieri – Encuentros pt.1 & pt.2 (1973)

8) Ada Rave Cuarteto – La Continuidad (2012)

9) Eric Dolphy – Epistrophy (1964)

10) John Coltrane Quartet – Greensleeves (1961)

* l’immagine proviene da una dedica di Paolo per la copia di Coltrane che ho regalato alla mia Serena…giusto per seguire il consiglio di Giorgio Trinchero (vedi qui)

Una risposta a ““Io non faccio graphic novel, io faccio fumetto”. Intervista a Paolo Parisi

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