Il lato (non) rassicurante: intervista a Charles Burns

di Antonio Solinas

Intervista inedita raccolta il 7 marzo 2009 a Bologna, durante il Bilbolbul Festival, dove Burns è stato un ospite della manifestazione.

I tuoi fumetti sono stati pubblicati in Italia, ma il grosso pubblico non ha forse familiarità con le tue storie. Vuoi presentarti?

Sono Charles Burns, vengo dagli Stati Uniti, da Philadelphia e faccio fumetti da… troppo tempo, direi. Sono trent’anni… Divido il mio tempo fra il lavoro di illustrazione, che mi permette di pagare le bollette, e i fumetti, che sono veramente il mio lavoro più personale.

Un tratto peculiare del tuo lavoro fumettistico, ancor di più dell’illustrazione, è la capacità di essere molto disturbanti, soprattutto per il pubblico generalista. Ti dà fastidio essere visto in questo modo o, d’altro canto, quali sono le motivazioni di questa scelta stilistica?

È difficile per me avere delle buone risposte, per spiegare perché io sia attratto da un certo tipo di storytelling. Come ho detto prima, i fumetti rappresentano il mio lavoro più personale e qualcosa di cui mi sento di prendermi la responsabilità completa: l’aspetto grafico, lo stile di scrittura, tutto quanto, e credo, sin dalla tenera età, di essere stato attratto da questo tipo di storia, sia tramite i film, che la televisione, sia tramite la lettura di libri che con i fumetti. Non ho una buona spiegazione per tale fascinazione nei confronti di certi argomenti.

La cosa interessante di alcuni tuoi fumetti è che, in un certo modo, i problemi interiori dei tuoi personaggi sembrano rispecchiarsi nel loro aspetto esterno, con cicatrici e mutazioni che assumono grande importanza (vedi Black Hole, per esempio). È una decisione conscia o ti viene naturale farlo?

Non so quale sia esattamente la fonte di ispirazione nell’uso di queste manifestazioni fisiche per mostrare i disturbi interni, non so da dove venga, specificamente, ma mi piace sempre usare questo tipo di approccio metaforico, questo tipo di simbologia, questo tipo di idea di mostrare una evidenza fisica di conflitti interni. Chiaramente, nella mia storia Black Hole c’è il concetto di “peste giovanile” (teen plague in originale, N.d.T.), una malattia che colpisce solo i teenager, con sintomi non a caso ma dalle mille diverse fenomenologie. Di nuovo, sono più che altro simboliche e metaforiche.

In questo senso, è stato messo in evidenza come Black Hole sia una metafora dell’AIDS, ma io lo vedo anche come una azzeccata metafora dei cambi che la pubertà e l’adolescenza portano. Sei d’accordo? Come è nata l’idea della serie?

Per rispondere alla tua ultima domanda, avevo questa idea della teen plagueche colpiva solo i giovani, come metafora dell’adolescenza, su cui avevo lavorato in un certo numero di storie più brevi a fumetti. Ma mi sono reso conto che era qualcosa di importante per me, e volevo investigarla in maniera molto profonda. E la storia non riguarda tanto la malattia in sé quanto i personaggi e il modo in cui questi lottano contro la malattia, questo era il conflitto.

In realtà, avrei potuto raccontare una storia abbastanza simile a proposito dell’adolescenza e dei teenagers, ma senza l’idea della malattia, ma questo era un modo di renderla più forte, di forzare la storia verso situazioni molto più forti. E poi mi piaceva l’idea di come la malattia si manifestava: per esempio, quando ero a scuola, a quell’età, mi ricordo che mi volevo reinventare in modo da diventare una nuova persona, ricreandomi. E l’idea della ragazza che cambia pelle, in maniera letterale, come un serpente che esce dal proprio involucro: mi piaceva la possibilità di giocare con temi di questo tipo, con queste idee. Un altro personaggio ha una bocca sul collo, che rappresenta quasi la sua voce interna inconscia: anche se ha questa facciata ben definita, con una forte personalità, c’è questa voce onesta che vien fuori da un’altra bocca.

Visto che hai fatto cenno agli adolescenti e a come vogliono cambiarsi, quanto ti è stato facile riprodurre lo stato mentale di quando avevi sedici-diciassette anni?

Probabilmente ciò dice molto sul mio livello di maturità come adulto: è stato difficile, ma è stato qualcosa che ho preso molto seriamente, cercando di immergermi nella parte nella stessa maniera in cui un attore cerca di calarsi nel proprio ruolo con un metodo. In questa storia, inoltre, per la prima volta vi era una protagonista femmina, con una narrazione basata su monologhi interiori di una protagonista di sesso femminile. Mi è venuto tutto naturale: penso che ci siano sentimenti che sono generalmente condivisi e questa è la ragione per cui molti dei temi dell’opera, anche quando è stata pubblicata in altri paesi (e so che verrà pubblicata in Corea e Russia, per dire) hanno avuto un riscontro, essendo l’adolescenza un dato universale, basato sulla lotta di cambiare dall’infanzia all’età adulta e raggiungere un equilibrio per quanto riguarda la propria sessualità e identità in generale. Penso che queste idee saranno sempre universali: è stato difficile, dal punto di vista emotivo, scrivere certe parti della storia, ma volevo veramente essere il più onesto e senza censura possibile.

In quel senso, una delle parti più emozionanti del libro è la storia di Eliza, la ragazza con la coda, che tende a generare quel senso di repulsione/attrazione che è spesso associato ai nostri sentimenti quando da ragazzi scopriamo il sesso. Quanto hai preso dall’esperienza personale e quanto è stato facile trasporla sulla pagina?

Non ho mai incontrato una ragazza con la coda, in realtà (ride). Anche se, a ripensarci, forse vorrei che fosse accaduto… Penso di avere riflettuto sui miei stati d’animo più emotivi che ho passato. Ci sono alcune situazioni del libro che sono molto autobiografiche, tratte proprio da eventi in cui mi sono trovato. Come ho detto prima, ho usato l’idea della teen plague per renderle più forti, quasi come un catalizzatore che spinge i personaggi in situazioni molto più estreme. Per esempio, prendiamo la porzione della storia in cui il protagonista sta andando insieme a degli amici in una casa in cui si può comprare marijuana, e inaspettatamente incontra questa bellissima ragazza che abita lì, Eliza. Mentre è in cammino, il protagonista è depresso perché desidera in maniera romantica e idealizzata una ragazza della scuola, Chris, che lui mette su un piedistallo. Mentre pensa a lei in maniera ingenua e romantica, a un certo punto ha questo incontro inaspettato in cui emerge una forte attrazione sessuale e il protagonista deve fare i conti con essa. Questo tipo di sentimenti è sembrato autentico, mentre scrivevo. Anche se poi la storia è scritta in una vena molto più fantastica, questi sentimenti mi risultavano genuini, e il mio scopo era raggiungere una vena di autenticità.

Per completare Black Hole ti ci è voluto un sacco di tempo. Ci sono stati degli effetti sulla tua scrittura o sul disegno? Hai mutato in alcuna maniera l’idea iniziale o il modo in cui hai trattato certi argomenti?

Quando stavo iniziando a scrivere la storia, ho preso una decisione in maniera conscia: volevo puntare l’attenzione sui personaggi, avere una storia guidata dai personaggi, cosa che non avevo mai realmente fatto prima. Quindi sapevo di volere passare un po’ di tempo a creare una storia in cui al centro ci fossero i personaggi e non le situazioni. All’inizio non era necessariamente un modo di commentare sull’AIDS e neppure, se vuoi, sul periodo a livello di politica etc. Era solo un esercizio di definizione dei personaggi, scavando a fondo. I personaggi erano certamente basati sulle esperienze mie e dei miei amici quando avevamo circa l’età (dei personaggi del libro). Mi ci è quindi voluto un po’ per scrivere la storia: io scrivo con lentezza, ma in questo caso si trattava di sceneggiare il fumetto in maniera un po’ diversa, scavando dentro di me stesso e mettendo a nudo cose che non erano semplicissime per me da mostrare.

Black Hole è stato stampato in molti paesi, come hai detto anche tu, e ha ricevuto un’accoglienza di solito ottima. Come è andata negli Stati Uniti? Hai ricevuto critiche per un fumetto che non è certamente facile o rassicurante?

Sorprendentemente, non mi riesce di ricordare che ci sia stato nessun tipo di critica o tentativi di censura. Nel fumetto ci sono immagini molto forti a livello grafico, per quanto riguarda l’immaginario sessuale e la violenza, ma non ho mai utilizzato queste immagini a scopo gratuito, o per titillare qualcuno. Era solo per fare riflettere su quegli elementi. Per esempio, ci sono una o due situazioni fortemente violente, e volevo che fossero orribili, e che ci fosse la sensazione di un momento veramente violento, e non qualcosa che si vede in televisione o in un fumetto di supereroi. Qualcosa che creasse questo momento veramente orrendo e che facesse pensare a che cosa fosse realmente quella violenza. Lo stesso discorso vale per la sessualità: penso a quelle immagini grafiche che avevano però un valore grafico “confrontazionale”. Dovevano avere un effetto forte a livello di storytelling.

Un altro aspetto interessante, presente sia in Black Hole che in altre tue opere, è il fatto che la tua sensibilità può essere definita pop, ma il lavoro fatto è nella direzione di mutarla e renderla molto più dark e meno consolatoria. Da dove deriva questo interesse per la cultura pop e quando è stato che sei stato esposto per la prima volta al “lato oscuro” del pop?

Le cose su cui rifletto, in realtà, sono le cose con cui sono cresciuto, ovvero la cultura americana. Per esempio, sono nato nel 1955, e quindi nei primi anni ‘60 negli Stati Uniti c’era una moda per cui erano molto popolari le riviste di mostri, c’erano programmi televisivi e film tutti di mostri. Fu una moda passeggera, ma io avevo proprio l’età giusta per apprezzarla. E penso che molte delle mie storie siano una specie di risposta alla cultura popolare americana, o, in un altro senso, di riflessione su essa, ma guardando oltre la facciata commerciale e cercando di concentrarsi sull’esame delle cause alla base. Non necessariamente cercandone il “lato oscuro”, come dici tu, (anche se molto spesso è oscuro) ma esaminando le stranezze del fenomeno.

In questo senso, hai fatto cenno al fatto che i fumetti sono una specie di progetto personale, più che un lavoro “commerciale”. Dato che però lavori anche con editori mainstream, pensi che il tuo approccio alla materia pop cambi, a seconda che si tratti di cose tue o di lavori per un committente?

Non sono sicuro di aver capito bene la domanda…

La domanda è se ti approcci alle illustrazioni nella stessa maniera dei fumetti.

La differenza è che quando faccio qualunque lavoro a livello commerciale, qualcuno sta pagando per le mie capacità e le mie abilità, quindi le idee sono di qualcun altro. Ciò non vuol dire che non ci metta tutto me stesso, nel lavoro grafico, cercando di trovare la migliore soluzione possibile per una illustrazione, ma lo scopo è completamente diverso. Per me c’è la necessità di mantenermi e quindi supportare la mia famiglia o aiutare a supportare la mia famiglia, e per questo motivo accetto lavori di natura commerciale.

Ovviamente non accetterei lavori di natura commerciale per i quali non avessi rispetto, ma c’è quel tipo di divisione per cui non c’è mai stato nessun fumetto che ho scritto o mai voluto scrivere che potesse in alcun modo tollerare ingerenze censorie. Non mi accosterei mai a qualcosa che potesse in alcun modo essere censurato. E, in questo senso, sono stato fortunato che ho avuto editori che rappresentano un canale per lavori nei quali non c’è mai stato niente che ho dovuto cambiare a causa di una qualche tipo di censura. Mi sento fortunato ad avere questo tipo di libertà personale di creare le storie che voglio.

Ti ha mai sorpreso il fatto che qualcosa di così personale sia così acclamato, al di fuori della cerchia ristretta dei tuoi amici?

Come scrittore e disegnatore, lavoro in un medium commerciale, ma non sto pensando a un pubblico in sé. Penso solo a scrivere la migliore storia possibile. Il mio approccio è sempre quello di essere il più chiaro possibile e di fare risultare la mia storia la più chiara possibile, ma non c’è mai l’influenza diretta del pensare ad una audience in sé e per sé. Non penso a chi legge i miei fumetti. Qualche volta mi viene chiesto, nelle interviste, “Chi pensi che sia il tuo pubblico?”, e la mia classica risposta è: “Non lo so”. Se vengo invitato a un qualche evento come questo a Bologna, incontro persone che hanno letto le mie storie e sembrano averle apprezzate (ed è sempre un piacere), ma non riesco a pensare in termini tipo: i miei fumetti sono per ragazze teenager in un’età compresa fra 14 e 22… Non fa proprio parte del mio modo di pensare. Io penso solo a raccontare la storia che mi sento spinto a narrare.

Il modo in cui usi il materiale pop mi fa pensare al fatto che tu sezioni l’immaginario mainstream per creare un cortocircuito pop-autoriale che, in Italia, per esempio, non esiste. Come è la situazione negli Stati Uniti? Ti senti uno che colma le differenze fra due mondi?

Non lo so proprio. Negli Stati Uniti, Black Hole è stato pubblicato dal mio editore Fantagraphics in maniera serializzata, con un formato tipico da comic book americano, che poi in realtà non è più un modo fattibile di lavorare in questo periodo, a causa del considerevole mutamento dell’economia. Ma, nel creare la storia (e dividerla in parti serializzabili), l’intento finale era comunque sempre quello di proporre in una unica graphic novel la storia completa. Ed ho scelto di fare pubblicare la storia come volume dalla Pantheon Books, che è un enorme editore americano, parte di una delle maggiori case editrici americane, perché conoscevo l’art director e gli editor e sapevo che mi avrebbero dato la libertà di creare il libro e farne il design esattamente nella maniera che io volevo. Sapevo che c’era un certo tipo di pubblico nel mondo dei fumetti underground e alternativi, persone che sarebbero andate nelle fumetterie specializzate a cercare il mio lavoro. Ma volevo che questo fumetto, alla fin fine, andasse nelle librerie di varia, in modo che qualcuno potesse prendere un cartonato che sembrava un libro normale e invece… Alla fine ho scoperto che ha avuto lettori anche fra quelli che normalmente non leggono i comics. Qualcuno mi ha avvicinato e mi ha detto che il mio libro è stata la prima graphic novel che aveva mai letto, e che gli era piaciuta molto. Per me, questo è stato molto gratificante, e mi è anche piaciuto che alcuni mi abbiano proprio detto che sembrava un libro normale, finché non lo hanno aperto.

Per prima cosa hanno preso in mano il libro, cosa importante, e ovviamente non aveva l’aspetto di un fumetto di supereroi, per dire. Per cui, il libro è stato preso perché sembrava interessante, e molti lo hanno scoperto in questo modo, cosa che mi ha fatto piacere perché ho raggiunto un pubblico nuovo per il mio libro.

Ma tu, invece, i fumetti li leggi ancora o hai smesso?

Ci sono tantissime persone che ammiro, sia in Europa che negli Stati Uniti. È una piccola percentuale, ma lo stesso penso che valga per la letteratura, il cinema e gli altri media.

C’è in giro della roba interessante e c’è un piccolissimo numero di persone che fanno delle cose eccezionalmente buone. E io sono sempre interessato ai lavori eccezionalmente buoni.

Non ce n’è molto, mi sa…

È una piccola percentuale ma è normale che sia così.

Big Baby è l’ultimo dei tuoi lavori ad essere presentato in Italia. Vuoi parlarcene, brevemente, spiegandoci come si situa nel corpus delle tue opere a livello di tematiche e argomenti?

Direi che praticamente molti dei miei fumetti rappresentano aspetti diversi della mia personalità. Big Baby è questo bambino alieno dall’aspetto strano che vive in quello che, superficialmente, sembra un ambiente suburbano americano molto normale. È un bambino con una immaginazione molto sviluppata, e questo, costantemente, lo porta a ficcarsi nei guai. Le storie diBig Baby sono state realizzate un bel po’ di tempo fa. Sto cercando di ricordarmi: mi sembra che la prima storia sia probabilmente dei primi anni ‘80, per cui si tratta probabilmente di storie che partono dai primi anni ’80 per arrivare all’inizio degli anni ‘90. Molte delle storie riflettono sul tema di un bambino che sta osservando ed esaminando il mondo degli adulti, e cercando di trarre un senso da tale mondo, e arrivando a conclusioni che non sono sempre troppo rassicuranti.

Un’ultima parola per i tuoi fan italiani?

Vediamo: non sono mai bravo a dire l’ultima parola… Non so: fuori c’è il sole e il tempo è bellissimo, dopo una settimana che è piovuto tutti i giorni, quindi sto per uscire e godermi il sole proprio… ora.


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Antonio Solinas, è tra le altre cose uno degli autori del saggio su Grant Morrison: Grant Morrison All Star

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