«La vita è una chiavica», ovvero il Graphic Novel come categoria merceologica, più una discussione con Massimo Giacon.

Quando ero piccolo compravo i fumetti dall’edicola di un piccolo paesino di provincia. La fornitura era incostante, la selezione squinternata e l’esposizione al di poco imbarazzante. Soprattutto, non c’era soluzione di continuità tra i Disney, i nuovi fumetti dell’allora Marvel Italia e i giornaletti porno sia a fumetti che hard-core, esposti in bella vista tra un Paperino e un Uomo Ragno edizione natalizia. Non dimenticherò una delle scene topiche, in cui sceglievo tra i nuovi spillati arrivati e clamorosamente non poteva non cadermi l’occhio su una copertina oleografica di un supereroe chiamato il Punitore, ma che non aveva nulla a che fare con Frank Castle e non puniva criminali e narcotrafficanti, ma avvenenti signorine deflorandole con il suo mitra (non è una metafora). In questo bell’ambiente – ottimo per rinfocolare qualsiasi bieca perversione in un bambino/adolescente – c’era quasi sempre un tipo parcheggiato dall’aspetto laido, che di tanto in tanto, mentre sfogliava l’ultima rivista porno arrivata, sbuffava dicendo: «La Vita è una chiavica» [1].

6002764124_2bc4bf25c7

Da anni non entro in un’edicola, se non per comprare un quotidiano e i vari supplementi che con un prezzo “modico” ti permettono di arredare con collane enciclopediche dall’indubbio piacere estetico. Quindi dove compro i fumetti? Di solito in libreria e on-line [2].

Ora, capitando spesso in alcune librerie ho notato che tra le tag del reparto dedicato ai fumetti facesse capolino la voce “graphic novel”. Allora, la diatriba su che cosa sia o non sia graphic novel, o su quali siano le caratteriste che permettano di individuare nel marasma delle pubblicazioni a fumetti cosa possa con esattezza essere chiamato in questo modo è abbastanza viva.

Tuttavia, un dato oggettivo ormai sotto gli occhi di tutti credo sia l’uso indiscriminato del termine, anche quando non ce ne sarebbe affatto bisogno. Ormai, viene usato quasi sempre per regalare ad una forma “artistica” da sempre bistratta una parvenza alta e adulta: un fascino culturale di cui in realtà non ha nessun bisogno.

Anche la semplice distinzione editoriale, per la quale un fumetto serializzato non può essere definito graphic novel sembra aver perso aderenza. I Trade Paperback che raccolgono run di serie a cadenza mensile o miniserie sono presentati come graphic novel. L’assottigliarsi di questa netta distinzione non può non condurre a pensarlo come una semplice categoria merceologica che risponde ad una richiesta del mercato: se i media e i consumatori sono molto più propensi a parlare e a leggere più graphic novel che fumetti, allora ben venga la demolizione di qualsiasi distinzione.

156453_612278078798117_561778731_n

Un’altra distinzione fagocitata dalla macro-categoria è quella tra forme “alte” e “basse” di fumetto: nel momento in cui un prodotto mainstream o che è apparso nel circuito tipicamente italiano delle edicole accede al sancta sanctorum della distribuzione libraia acquista de facto un valore, che permette a chi ne cura il lancio, la promozione e la diffusione di ricorrere al concetto di “romanzo grafico”.

Il problema fondamentale è quindi quello di pensare l’applicazione di una tag come un tentativo di  “v a l o r i z z a z i o ne”  del prodotto, non che questo non lo abbia a priori perché proveniente da un contesto differente, anzi tutt’altro, molto spesso le graphic novel, e che quindi non acquistano il blasone “letterario”, sono appiattite e schiacciate su di uno standard ormai omologante e sterile, ma il solo tentativo di snaturare e ricorrere ad una categoria meramente merceologica per dare valore ad un fumetto mostra un nervo scoperto. La necessità, cioè, di ricorrere ad un “valore” indotto – il parallelo con la letteratura, attraverso il ricorso a locuzioni come romanzo grafico, narrativa grafica, etc etc. – per mostrare come lecita e cool la lettura di quello che in fin dei conti è semplicemente un f u m e t t o.

535652_612278145464777_2085326371_n

Ritornando all’episodio che mi ha spito a buttare giù questi affrettati e nevrotici appunti, quello che mi ha colpito è che sotto il cartellino “graphic novel” tutto si trovava all’infuori di quello che definirei in maniera restrittiva come tale: manga, ristampe di tex, raccolte dei Peanuts di Schulz, antologici. Tutto ciò, oltre a mostrare una totale inconsapevolezza di chi gestisce gli spazi espositivi in librerie “commerciali”, mostra anche una spocchiosa ignoranza da parte di chi impone certe strategie commerciali.

Inoltre, ciò palesa anche il disinnescarsi di un genere che era potenzialmente eversivo anni fa e che ora da un punto di vista commerciale ha portato a galla il fatto che il termine fosse solo un belletto, un tentativo di indorare la pillola e far passare sotto banco un’arte verso cui è stato sempre vivo un pregiudizio.

Ancora, è un’omologazione schiacciante verso quelle forme di genere che per fortuna non sono allineate con i gusti radical chic, che credono degni di nota solo quei fumetti impegnati, dalla chiara vocazione sociale, o che hanno come argomento l’assillante problema della personalità. “La vita è una chiavica” potrebbe essere, allora, un buon titolo per tutti quegli insipidi “romanzi grafici” a tema autobiografico. Ne abbiamo già parlato (qui) della deriva autobiografica e, pur non potendo non ammettere l’imprescindibilità del soggetto, non posso non notare che non è che una piega di qualcosa di più ampio.

In Retromania, Simon Reynolds, dopo aver speso pagine a mostrare come gli anni zero fossero stati gli anni di massima diffusione del mal d’archivio, annotava come questa tendenza avesse condotto a conservare patologicamente ogni traccia e ogni “documento”, ma soprattutto a con-dividerlo in un dilagante over-sharing in cui l’ovvio e il banale acquisivano un’importanza insopprimibile per l’individuo. Ogni utente di un qualsiasi social network documenta e condivide ogni banalità che ai suoi occhi, in un narcisistica prospettiva, è degna di essere “notabile”. Ora, proporre prodotti che cadono sotto lo stesso interesse documentaristico instilla e risponde all’esigenza che ogni “condivisore seriale” ha di rendere “pubblicabile” le proprie memorie. Il graphic novel, allora, risponde sia a questo bisogno di immedesimazione e riconoscimento e, nel contempo, ingloba tutto quello che è fumetto, perché fare romanzo grafico è più semplice, forse, che fare fumetti.

64133_498327983548102_1029610912_n

Una vignetta del sommo Altan che sintetizza al meglio il mio pensiero…

Post Scriptum:

Le illustrazioni sono di Massico Giacon e sono apparse su XL Repubblica #84. Ho chiesto a Massimo cosa ne pensasse del GN e la discussione ha preso una piega diversa:

Ultimamente mi è capitato di riflettere sull’inflazione del termine graphic novel, vedendoci quasi una semplice categoria merceologica. Cosa ne pensi al riguardo?

Il graphic novel più che una categoria merceologica direi che per certi versi è diventata un “genere”, e come tutti i generi ha le sue eccezioni, ma purtroppo anche i suoi codici e i suoi tormentoni. Il problema è che forse la deriva autobiografica e giornalistica sta soffocando la creatività. Cercherò di spiegarmi meglio: un tempo il graphic novel si definiva in altro modo, era semplicemente “libro a fumetti”, e il termini GN ha cercato di nobilitare il fumetto presso categorie di lettori che il fumetto non lo leggevano, dandogli maggiori valenze letterarie. Secondo me il fumetto non ha mai avuto bisogno di nobilitarsi, era già nobile di per sé, ma il GN ha aperto nuove possibilità e acceso interesse. Peccato che così molti capolavori del passato oggi sembrano prodotti su Marte, prodotti che probabilmente non avrebbero mercato, sarebbero visti come letture difficili. Non so se oggi si potrebbe ancora generare un’opera come Una Ballata del Mare salato, o restando su qualcosa di più originale: Ici meme di Jacques Tardi su sceneggiatura di Jean Claude Forest (un genio quasi dimenticato). Forse sarebbero percepite come letture troppo distanti dall’attualità e dal vissuto contemporaneo, ma questo si può estendere anche al cinema, forse oggi Buñuel non troverebbe produttori disposti a investire soldi in film come Il fantasma della libertà, o Il fascino discreto della Borghesia.

20070517092647_t0

Il che è abbastanza negativo, dato che ci priverebbe di due capolavori assoluti. la cosa curiosa è che di recente ho fatto vedere L’amico americano di Wenders ai miei studenti, e loro hanno fatto delle considerazioni interessanti, che si riferivano non tanto alla lentezza della trama, ma rilevavano che i comportamenti dei protagonisti non avevano secondo loro nulla di razionale, il che mi ha fatto riflettere sul fatto che la narrazione di fiction contemporanea, anche quella legata a personaggi fantasy o supereroistici, insiste molto sul fatto che la credibilità della storia non scada mai nel ridicolo involontario e la sceneggiatura presenta dialoghi sempre perfetti, mentre nella realtà nessuno parla come personaggi di un film di Tarantino e ci comportiamo spesso in maniera assai poco razionale e imperfetta. Per “credibile” intendo il fatto che probabilmente oggi uno sceneggiatore non inserirebbe mai nel film un Dennis Hopper che si fotografa con la polaroid dicendo “non so più chi sono io e chi sono gli altri”, così, senza nessun nesso apparente con la trama principale, magari lo accetterebbe da Lynch, che però è ormai diventato un po’ un vecchio elefante bianco…

giacon

Non vorrei però essere troppo nostalgico, ci sono ancora oggi libri a fumetti (una volta uscendo dai vari generi), che aggirano le secche dei luoghi comuni del GN, per esempio mi è piaciuto molto ABC di Ausonia, mentre non amo gli ultimi libri di Clowes, che ho molto amato, ma di cui ho apprezzato molto di più Like a Velvet Glowes cast in Iron, che trovo essere uno dei suoi libri più interessanti.

Sono abbastanza d’accordo sulla standardizzazione del Gn come genere, cioè quando si dice o si diceva gn si faceva riferimento ad un prodotto più o meno preciso, che andava appunto sotto la dicitura di “libro a fumetti”. Adesso però è praticamente esteso a coprire qualsiasi produzione e qualsiasi genere. Scrittori come Garth Ennis vengono presentati come graphic novelist nelle bandelle dei TP che raccolgono le loro run su testate storiche e mensili della produzione supereroistica. E’ una forzatura e risponde soltanto a facili e modaiole catalogazioni. Che come tu dici sono quasi sintomo di un complesso di malcelata inferiorità. E’ interessante d’altronde quello che dici riguardo la distanza che si crea verso certe opere.

Mi è capitato ultimamente di riguardare Bergman ed effettivamente c’è una certa distanza con i testi e certe azioni dei protagonisti, ma viene fuori una “letterarietà” che accetti e verso cui non hai nulla – a volte – da obiettare. E’ strano che ti accusi di nostalgia però e poi non ami le ultime opere di Clowes che sono abbastanza “nostalgiche” e “retrologiche” (penso a Death Ray). Devo ammettere che hai citato due fumetti che non mi hanno entusiasmato. ABC non mi ha convinto sino in fondo, e Velvet Glove continua a crearmi dei problemi. Ma ho dei problemi anche Lynch…

L’ultimo Lynch, (parlo di Inland Empire), lo trovo senile e inguardabile, però i suoi video musicali, fatti per il suo disco solista, sono straordinari. per quanto riguarda ABC sono d’accordo sul fatto che non è un capolavoro, ma lo trovo un interessante tentativo di uscire dal seminato del GN “canonico”, che poi è buffo parlare di canoni all’interno di un mezzo che è nato proprio per uscire dai generi (parlo proprio del GN).

tavola

Una doppia splash page di Giacon da La Quarta Necessità

Velvet Glove è una storia che si sviluppa in quel modo perché nasce a puntate nell’ambito dell’autoproduzione underground, e forse è per quello che si stacca dalla produzione recente. Poi è naturale che quando vieni costantemente tenuto sotto osservazione dalla critica letteraria americana snob del «New Yorker» perdi di spontaneità.

Il Lynch “musicista” mi ispira. Penso anche al progetto Dark Night of The Soul con il compianto Sparklehorse e Danger Mouse. Alla proiezione di Inland Empire – non posso nasconderlo – mi sono addormentato. L’onanismo senile messo in mostra era abbastanza noioso. A proposito di critica e controllo, credi che abbia inciso parecchio sulla formazione dei cliché e soprattutto sull’abuso degli stessi nei GN? Cioè quali sono i meccanismi che incidono sugli autori?

A volte ho quasi l’impressione che l’autore si senta un po’ schiacciato dalla necessità di dover per forza toccare dei temi “importanti”, e che quindi tralasci l’elemento del divertimento. E’ un pò come quando lo spasimante innamorato pensa di fare bella figura facendo leggere le sue poesie a una bella ragazza. Bisogna essere molto bravi perchè funzioni, ma molto spesso l’effetto è ridicolo. Forse è per questo che molta produzione è legata all’autobiografia impietosa. Se sei tu che parli male di te metti già le mani avanti e ti pari un minimo il culo.

E’ un modo quindi di disinnescare la critica? Ma non si apre poi il problema dell’autenticità? Cioè l’autobiografia dovrebbe essere il genere in cui il presupposto di partenza è l’autenticità, però i meccanismi che hai descritto in realtà si muovono in un contesto totalmente antitetico. Lungi da me però l’idea che l’autenticità sia un valore positivo, anzi.

Io non ho dei dubbi sul fatto che siano autentiche, più che altro la trovo una strada facile, che d’altra parte uso anch’io quando ho difficoltà a raccontare delle cose partendo da zero. A volte si può partire da un avvenimento biografico per sviluppare una trama (ma senza citarne la fonte), a volte lo si dichiara, con chiaro intento di captatio benevolentiae nei confronti dei lettori.

giacon-3

Non credi che l’empatia si basi anche sul fatto che molti lettori raccontano oggi costantemente se stessi grazie a blog, social network et similia?

Sicuramente, ma a quel punto potrei esprimermi con un’esclamazione retorica e sdolcinata “ma se si parla solo di noi stessi dove è finita la fantasia?”. Diciamo che parliamo di noi e delle piccole cose perché è difficile parlare di un mondo sempre più complicato.

Tocchi un punto nevralgico: che fine ha fatto la fantasia, l’avventura, l’epica? è patologico questo interesse per le “piccole cose”? Ma soprattutto, c’è bisogno delle grandi opere di fantasia? o subirebbero lo stesso destino di incomprensione del film di Wenders di cui parlavi prima?

Beh, dipende, non è che non ci sono più le opere di fantasia, solo che appartengono al mainstream, che ha imparato la lezione e si è fatto delle belle iniezioni d’autore e di underground, per cui si trovano un sacco di buone idee nei fumetti supereroistici e nei fumetti francesi, mentre il GN ha deciso di lasciar perdere.

Arty-Party-2

Ti faccio un esempio: per la Lettura ho proposto una storia di due pagine che era ambientata durante un party d’artista, una situazione vagamente felliniana e grottesca, anche se l’avevo tratta da una situazione parzialmente realmente accaduta e vissuta. Quella storia è stata scartata perché era troppo sboccata e strampalata, e non era abbastanza “reale”. Il paradosso è che il GN è diventato a suo modo una realtà a sé stante, forse è quello il vero territorio fantastico contemporaneo.

Un reale fantastico per paradossalmente mette tra parentesi la realtà?

Una realtà parallela depressa dove tutti si fanno domande esistenziali e dove domina la vignetta brulla.

Il peggiore degli incubi per il lettore medio…

Beh sì, ma insomma per fortuna il GN non è tutto così…

* * *

Note

[1] Mi sa che il tipo è morto qualche anno fa.

[2] Non so perché non ho mai amato le fumetterie. Le bazzico, ma ho una certa ritrosia a passarci più tempo del necessario. Forse perché l’uomo-fumetto è là e ne sei condizionato come con gli specchi in quei giorni in cui il vento ti scompiglia i capelli e ti sbatte in faccia il tempo che passa. Le librerie sono più neutre, impersonali, soprattutto se sono librerie della grande distribuzione, ma soprattutto è più semplice glissare dal reparto “fumetti” a quella della letteratura straniera o delle scienza sociali senza mostrare le tue debolezze “letterarie”.

42 risposte a “«La vita è una chiavica», ovvero il Graphic Novel come categoria merceologica, più una discussione con Massimo Giacon.

  1. Marco Pellitteri

    articolo interessante, anche per il taglio e l’intervista. Credo però sia utile in questi casi fornire della bibliografia linkabile. Ci sono autori che hanno scritto in rete sul tema del graphic novel, delle sue definizioni e delle problematiche merceologiche, di genere, di forma e formato. Arricchire il discorso quindi non sarebbe male, per sfruttare lo strumento internet e dunque la sua costitutiva ipertestualità.

  2. Pingback: «La vita è una chiavica», ovvero il Graphic Novel come categoria merceologica, più una discussione con Massimo Giacon. | (Ex) Zona San Siro

  3. Grazie a tutti…
    @Marco: hai pienamente ragione…Ma l’articolo è nato senza alcuna finalità “scientifica”, più che altro grazie (o per colpa) di una semplice osservazione e ad un ricordo di “gioventù” (sono ancora giovine, però). Sarebbe interessante concentrarsi sull’argomento, ma con dati alla mano…Mi riprometto e riprometto di tornarci su, anche se quello che mi interessa è soprattutto il nesso tra cronaca dell’ordinario e empatia…

  4. Marco Pellitteri

    certo, capisco l’approccio. Ci sta pensando il nostro amico a fare un lavoretto di fino… 🙂

  5. Gran bel pezzo, complimenti. Il passaggio ” Il problema è che forse la deriva autobiografica e giornalistica sta soffocando la creatività” è agghiacciante ma purtroppo è la verità. Su Nerdelite, il mio blog, mi sono occupato spesso della questione che ritengo sia attualissima e fondamentale oggi, sopratutto per gli autori. Tuttavia, bisognerebbe una volta individuato il sintomo, la malattia, trovare un rimedio. E passare all’azione. Come autore cercare di “osare”, lavorare sullo stile. In sintesi, da lettore, compiere scelte giuste, premiare le pubblicazioni e gli autori più creativi e originali.

  6. Mmm, articolo che m’è parso un po’ “meh”. Si son dette cose valide ma pure le generalizzazioni non sono mancate; certo è inevitabile considerando la base di partenza poco scientifica e per lo più improvvisata come ammette lo stesso Troiani. Concordo in sostanza sull’idea di GN come categoria merceologica, e la cosa ha in sé pure diversi lati positivi a mio modo di vedere.

    Devo dire però che io tutto ‘sto ombelicalismo autobiografico che si rinfaccia spesso alla graphic novel non lo rintraccio mica così di frequente, e sì che ormai leggo solo fumetti che trovo in libreria (più o meno per gli stessi motivi indicati dal padrone di casa). Mi sembra ormai più uno stereotipo che la graphic novel si ritrova appiccicato addosso che altro. Invece di rimaner sempre così su generico quando si parla dei limiti di certi approcci io direi che sarebbe meglio fare nomi e titoli.

    Graphic novel autobiografiche in senso stretto? Mi viene in mente il Gipi di S. e LMVDM (due libri magnifici), mi viene in mente Guy Delisle col suo Pyongyang, mi viene in mente il Pedrosa di Portugal e per molti versi potrei tirare in ballo pure il Blutch di “Per farla finita con il cinema” o ancora i lavori recenti di Tota e La Forgia.
    Tutti libri in cui pur impegnandomi non riesco a rintracciare questi stilemi da graphic novel superficiale/ombelicale/paracula di cui si parla tanto spesso. Facile, mi direte voi, hai citato autori validissimi e un paio di veri e propri mostri. E ok, ma fatemeli sti nomi di graficnovellisti per antonomasia che rimestano nell’autobiografismo più deteriore e di facciata per mascherare carenza di idee.

    Allo stesso modo non riesco troppo a scorgere la standardizzazione che paventate qua e là, sia guardando cosa c’è in libreria in questo momento sia esaminando un po’ quello che sta per uscire da qui a qualche settimana. Lo Sweet Salgari di Bacilieri è uno stralcio biografico costruito in maniera intelligentissima ed efficace, I segreti del Quay d’Orsay di Blain e Lanzac è riuscito a rendere intrigante un tema apparentemente privo di interesse narrativo come la diplomazia, Fior sta per uscire con una graphic novel di fantascienza, Oceania Boulevard di Galli è pulp-grottesco lisergico e potrei continuare. E mi son limitato a titoli che rientrano appieno, soprattutto merceologicamente parlando, nel settore graphic novel. Mi sembra che di mancanza di varietà e idee proprio non si possa parlare. Ma lo sapete meglio di me, son quasi tutti volumi di cui avete parlato anche qui.
    Per questo, visto che di esempi negativi non se ne son fatti, mi stupisco della generalizzazione così tranciante.

    Se proprio dovessi fare io un esempio negativo poi parlerei proprio di ABC, che non sarà strettamente autobiografico ma è zeppo di cliché, superficialità varie ammantate da un alone di autorialità (quasi il marchio di fabbrica di un autore essenzialmente sopravvalutato come Ausonia), immagini,aneddoti e trovate grafiche di una banalità disarmante (qui mi limito a citare la violoncellista sotto l’albero e tutta l’imbarazzante storia del “pittore senza cornici”), dialoghi e impianto narrativo degni della peggior produzione letteraria italiana contemporanea. Insomma, un graphic novel esangue, superficiale e a tratti pure paraculo.

    Sarà il caso dunque di farlo un discorso un minimo più sistematico e approfondito a riguardo, fosse anche solo per sfuggire alle facili generalizzazioni di cui sopra. Generalizzazioni che mai fanno bene alla critica.
    Sia chiaro, non è mia intenzione dipingere un quadro più positivo di quanto non sia in realtà, ma mi pare un filo eccessivo attribuire in esclusiva al settore del graphic novel tutta una serie di opere che nascondono vacuità, superficialità e mancanza di idee trincerandosi dietro ad un semplice nome e a tutto ciò che quel nome porta con sé. Si potrebbe dire lo stesso, fatte le differenze del caso, per ogni “tipo” di fumetto, dalle strip, al fumetto superomistico passando per i bonellidi.

    E ora la smetto che mi son dilungato anche troppo.

    Ciao

    p.s. su Inland Empire non capite una sega. 😛
    p.p.s Giacon, ma proprio te che dimostri una simile attenzione al design e un tratto così ricercato perché non usi un font che abbia le accentate? L’apostrofo al posto dell’accento tipograficamente proprio non si può vedere, oltre ad essere grammaticalmente scorretto.

  7. @Helvidius: Credo che il problema fondamentale sia quello di ricercare la “scientificità” in contesti e in contributi che si muovono in maniera parallela o laterale ai circuiti propriamente tali.
    L’articolo nasce come uno scritto d’occasione e tritura diversi problemi: da un lato l’uso indiscriminato della (macro)categoria gn, dall’altro il fenomeno più evidente e cioè l’autobiografismo (a volte legato strettamente con il graphic journalism).
    Nel contempo, non volevo certo esaurire l’argomento: è una prospettiva “personale” su un problema che può essere affrontato in maniera più capillare, discriminando i vari punti che ho toccato, quindi dalla serialità lunga (supereroistica o no) che viene segmentata e spacciata per letteratura grafica sino al gn come genere e la sua conseguente deiezione nell’autobiografismo innocuo.
    Gli esempi che fai sono giusti: nulla da recriminare a opere che ho personalmente amato e su cui ho scritto (vedi ad esempio il Blutch di Per Farla Finita…). Concordiamo anche sugli esempi negativi (ABC di Ausonia:https://conversazionisulfumetto.wordpress.com/2013/01/10/lesigenza-del-racconto-abc-di-ausonia/ ).
    Poi sia chiaro, la mia volontà non era quella di demonizzare un genere: più che altro la critica era diretta all’uso allargato e alla dimensione deiettiva del termine, ormai non più pregnante.
    Se poi già qualche appunto sparso e disordinato genera o può generare un dialogo fecondo in cui si incomincia a discernere con attenzione le aree regionali di un problema più vasto, in una tematizzazione che non sclerotizzi il tutto, ciò palesa anche l’esistenza di un problema o meglio di un qualcosa che fa affrontato con dovuti strumenti.

    p.s. se ci sono problemi di font etc credo sia dovuto solo al mio editing. Massimo non ha nessuna colpa…

  8. Mi son più chiari alcuni punti. La critica all’uso fin troppo allargato del termine poi mi vede del tutto concorde, in tal senso è innegabilmente una categoria che, anche per convenienza editoriale, sta cannibalizzando le altre.
    Comunque, a scanso di equivoci, la mia più che una critica voleva essere un’esortazione perché credo che si tratti di un argomento che merita ulteriori analisi specie in una sede come questa che ho sempre apprezzato per la propensione all’approfondimento e alla varietà di argomenti. 🙂

    Per quanto riguarda font e accentate mi riferivo al lettering delle tavole di Giacon, davo per scontato che fosse opera dell’autore stesso. Se mi sono sbagliato, chiedo venia.

    A presto.

  9. Delle tavole non sono responsabile 🙂 ma bisognerebbe chiedere direttamente a Giacon…
    Approfondiremo di certo!!!
    A presto…

  10. Purtroppo quel font non aveva le accentate, e ho dovuto arrangiarmi così.
    Era un bel dilemma, I font che avevano le accentate mi facevano schifo, per cui ho pensato che se la storia era interessante forse quel dettaglio sarebbe passato inosservato. E invece c’è sempre qualcuno più furbo e attento. E anche qualcuno che trova Inland Empire un bel film, se per questo. Io trovo sia un classico film “da fine carriera”, come gli ultimi film di Fellini, che erano “felliniani” , ma non erano più cinema, come avrebbe detto Godard.
    Io mi sono però ravveduto con gli ultimi video di Lynch, che trovo bellissimi, e forse fanno presagire qualcosa di buono nel futuro di uno dei miei registi preferiti (anche in tempi non sospetti, quando alla prima di “Blue Velvet” il pubblico usciva schifato).

  11. Non è furbizia, Giacon, è che sono un rompiballe su ‘ste cose. : P
    Inland Empire per quanto mi riguarda ha rappresentato un ulteriore passo avanti nel percorso di Lynch e non vi vedo le tracce di manierismo di cui molti parlano. Non mi pare però il momento e il lugo adatto a una analisi, quindi mi astengo.
    Son d’accordo su Fellini però, sarà che ho odiato “E la nave va”…
    Gli ultimi video di Lynch invece dovrò recuperarli.

    Ciao

  12. Caro Tonio,
    non sono un appassionato dei dibattiti on-line, ma mi permetto di commentare perché è per me un po’ disarmante continuare a leggere questo tipo di disquisizioni sulla GN.
    Già il termine è come dici tu abusato, ma un discorso sui generis, che tra l’altro suggerisce la facile associazione tra tema (autobiografia) e categoria (romanzo grafico), non aiuta proprio.
    Mi sembra poi strano che da addetti al mestiere non ci si renda conto dell’importanza di un’etichetta che ha aiutato i fumetti ad entrare in libreria, non per essere blasonati ma perché non esisteva per loro una collocazione. Ora che la piccola rivoluzione è avvenuta si fanno mille distinguo, questi sì radical chic, dimenticando come Igort abbia creato questo terreno (che si è dimostrato fertile per tutti – graphic novel o meno) dal vuoto il siderale degli anni 90.
    E poi: come si fa a non rendersi conto di quanto sia stata importante la riscoperta dell’autobiografia (è solo un esempio) nel fumetto? Con tutti gli epigoni insipidi che si possono contare tra autobiografi fumettari (io primo fra tutti), quanti ne contate nel fumetto di genere? Quante mutazioni di eroi, detective, pistoleri e clown avete visto? C’è una nicchia di autori che sopravvive miracolosamente e chissà per quanto, un pubblico sempre maggiore di lettori che si avvicinano per la prima volta al fumetto. Ci sono articoli e recensioni sui più grandi quotidiani nazionali, negli ultimi anni sono usciti veri e propri capolavori della GN italiana, che hanno marcato la storia del fumetto internazionale. Mi spiegate cosa c’è che non va? Che qualcuno chiami graphic novel le due pagine sul corriere? Mi sembra guardare il dito e non la luna.
    Il fumetto che ho appena pubblicato in Francia viene catalogato candidamente come “roman graphique”, non ho mai visto una levata di scudi tra lettori e commentatori francofoni. Il vostro sito giustamente propone analisi sul fumetto tout-court, e questo lo rende così interessante. Spero che si possa affrancarsi da questo battibecco sulla GN e passare presto ad altro.
    grazie dell’attenzione,
    manuele

  13. “ci si possa affrancare”, pardon.

  14. Credo però che il nodo del contendere non sia il valore culturale del formato graphic novel (figuriamoci, ne ho pubblicati ben tre!) e dell’importante contributo che ha dato per far si che il linguaggio del fumetto sia a livello di scrittura che di segno potesse espandersi e svilupparsi, un tema che personalmente credo non necessiti di ulteriori disquisizioni. No, qua il tema è un altro, che la tendenza a focalizzare eccessivamente l’attenzione di tutti sulle biografie e la cronaca legate a finalità etico-morali del racconto a scapito della ricerca stilistica e del “romanzo” stia uccidendo la creatività, la fantasia del narrare, l’invenzione del nuovo, l’avventura, cioè i punti di forza del fumetto dall’inizio dei tempi, almeno a mio modo di vedere. Ben inteso, è una tendenza, non tutti i fumetti vanno in questa direzione, semmai quelli che almeno apparentemente ottengono maggiori luci dalla ribalta.

  15. p.s. naturalmente con quel commento tra parentesi intendevo esprimere che a titolo personale credo molto nel formato graphic novel, sorry, ma forse nella fretta mi è sfuggita un’iperbole davvero eccessiva…

  16. Giovanni Marchese, io invece è proprio la presunta tendenza che ravvisi tu che contesto come esagerata e per molti versi stereotipata. Ma poi davvero, facciamo un po’ di titoli perché io nell’ambito del graphic novel questa predominanza ormai proverbiale dell’autobiografismo spiccio non riesco proprio a rintracciarla. Non mi pare si tratti di una tendenza così marcata da poter essere considerata una caratteristica specifica del graphic novel come invece sembrano suggerire la maggior parte dei detrattori.
    Io noto invece una spiccata varietà di approcci e idee e ho fatto nei miei commenti precedenti vari esempi di libri già usciti e di titoli di prossima pubblicazione che confermano questa mia impressione. Chi sostiene l’esatto contrario potrebbe fare altrettanto, anzi, stando a un simile ragionamento dovrebbe avere una miriade di questi fumettacci ombelicali da suggerire.
    Per altro, come giustamente fa notare Fior, è indubbio che il graphic novel abbia per molti versi sdoganato la biografia e l’autobiografia in ambito fumettistico; perché questo sdoganamento debba esser letto come un fenomeno marcatamente negativo però non è mica tanto comprensibile.
    Associare l’autobiografismo alla mancanza di idee e di fantasia è semplicemente pretestuoso oltre che assolutamente sbagliato. C’è chi ha detto che ogni opera è in realtà un ritratto del suo creatore, dunque un’autobiografia. Non arrivo a fare un’affermazione così apodittica ma è indubbio che molti capolavori della letteratura di ogni tempo abbiano una forte base autobiografica. Limitandosi al solo 900 basterebbe fare i nomi di Hemingway, Céline o Miller, tutti scrittori cui nessuno oserebbe rifancciare mancanza di fantasia, idee o forza espressiva. In ambito letterario non è mai stato visto come un limite (perché, semplicemente, non lo è), non comprendo perché debba essere diverso per il fumetto. Anche perché, ammettiamolo, di fumetti autobiografici negli ultimi anni ne son venuti fuori di bellissimi in tutto il mondo. Un paio sono addirittura degli incontestabili capolavori.

    Tutto ciò fermo restando il fatto che il filone autobiografico mi sembra una parte di un settore assai variegato per approcci (narrativi e grafici), idee e – per forza di cose -esiti.

    Qualsiasi genere ha i suoi esiti negativi se affrontato male, in maniera convenzionale o con superficialità, tuttavia le eventuali mancanze non possono essere imputate al genere (non ha colpe lui, povero cristo) quanto all’autore sciatto, superficiale, convenzionale e dunque privo di talento.

    Si è arrivati a dire che il graphic novel sta ammazzando la fantasia e l’avventura a fumetti.
    Mi limito a dire che in Italia la più grossa fetta di mercato è in mano a un editore che dell’Avventura ha fatto (e continua a fare) il suo stendardo; ecco, andatevi a leggere le uscite mensili di questo editore, cercate un po’ lì la fantasia, l’avventura, le idee, il nuovo (!), il gusto della narrazione, la creatività. Dopo esservi scontrati con una ormai cronica aderenza a cliché narrativi, paletti più o meno autoimposti, spunti malamente rimasticati da altri media, personaggi privi di qualsivoglia approfondimento, dialoghi risibili e intrecci schematici e convenzionali, probabilmente sarà chiaro anche a voi che è lì che sono morte la Fantasia e l’Avventura. A “casa” loro.

  17. …mmm…. si, alcune cose relativamente al fumetto d’avventura tradizionale che dici sono vere ma quanto all’autore sciatto, superficiale, convenzionale e dunque privo di talento… non esiste miglior palcoscenico oggigiorno che una bella biografia di un personaggio famoso morto in circostanze tragiche e/o esemplari contro il muro di gomma di uno Stato assente… e troverà una scena disposta a passare sopra la mancanza di stile e di fantasia. Di Joe Sacco e Guy Delisle in giro ne vedo pochi, ahinoi. Ma ripeto, secondo me è solo un filone, per fortuna c’è ancora tanto altro da leggere solo che non gode di uguale considerazione e visibilità mediatica, ecco.

  18. Adesso sono in giro e non posso rispondere ad una questione complessa in maniera articolata, come vorrei. Però mi permetto di fare due o tre appunti veloci. Primo: niente è indiscutibile. Su Miller e su Hemingway avrei da ridire per esempio, considerando soprattutto il secondo profondamente deleterio per l’evoluzione della storia della letteratura contemporanea, un vero e proprio tappo di cui ancora oggi facciamo fatica a liberarci (e di autori noiosi e ombelicali, come si usa dire qui, come Miller ne ricordo pochi). Quando sento espressioni come “capolavori indiscutibili”, mi si rizzano i peli sulle braccia. Altra questione è: ma siamo sicuri che il fumetto abbia guadagnato poi così tanto nell’entrare in libreria? Tralasciando guadagni e gratificazioni degli autori? Non è una domanda retorica. Nella mia opinione ha perso anche molto, in varietà, originalità e soprattutto nel senso della crescente incapacità di essere non autoreferenziale come medium (e non parlo di autobiografismo)

  19. @Helvedius: Semplicemente non vedo il fumetto come qualcosa di chiuso in se stesso, ma come un’espressione di una tendenza generale che corre verso un’ipertrofia dell’io a discapito della costruzione e dell’invenzione narrativa. In letteratura (e parli di letteratura ormai storicizzata) il problema è lo stesso ed è stato sollevato più volte. Il ripiegamento su un intimismo spicciolo e ordinario è una piaga che affligge la letteratura da parecchio e non mi sembra che sia un problema secondario tutt’altro: tutti hanno un libro scritto e sepolto in qualche cassetto, o che magari viene stampato e autoprodotto. Peccato siano pochi quelli che meritano una lettura.
    Inoltre, non è l’autobiografia in quanto tale ad essere il problema, ma l’autobiografia in quanto genere codificato e sclerotizzato anche a livello stilistico.

    Gli esempi ci sono e anche tra i grandi: Spiegelman che ormai da anni non che fa che spulciarsi e scrivere glosse autobiografiche e metafumettistiche. L’inutilità di Jeffrey Brown o di Joe Matt. Chester Brown che si salva in calcio d’angolo con il suo ultimo lavoro, perché usa l’autobiografismo per parlare d’altro.

    Quello che mi preoccupa è la cronaca del banale o il suo mascheramento a fini didattici e documentaristici. Delisle mi annoia, Sacco non è più interessante, Satrapi idem. Le autobiografie devono sempre essere aprirsi ad un contesto più ampio, che travalichi e trascenda il tono cronachistico. Un’opera come Il Grande Male di David B. è un esempio mirabile sotto diversi aspetti, per come tratta il problema della malattia e l’identità del “malato” e per come declina la cronaca in un linguaggio potente e dalla simbologia pregnante.

    Inoltre, accusando l’autobiografismo a fumetti non lo si vuole estirpare a favore della narrazione di “genere”, qualsiasi cosa questo significhi.

    p.s. la conquista della libreria ha comportato un altro problema, che andrebbe approfondito: il ripiegarsi del fumetto sul formato “libro” (non sempre e in tutti i casi).

  20. @Giovanni Marchese: senza girarci troppo intorno, mi pare tu ti riferisca a molti dei fumetti della becco giallo. Ti dico che son pure d’accordo, è un’operazione, la loro, che mostra spesso la corda. Per quanto anche in questo caso sia necessario fare dei distinguo, non sono mancati titoli per lo meno interessanti anche nel loro catalogo. Ad ogni modo mi sembra un po’ poco per parlare di vera e propria tendenza. Riguardo la visibilità mediatica ho idea che più che al filone di tendenza sia da attribuire alla maggiore abilità di alcuni uffici stampa rispetto ad altri (certo, questo quando un editore ce l’ha l’ufficio stampa…).

    @Tosti: non ho usato affatto l’espressione “indiscutibile” mi pare. Su Miller siamo in netto disaccordo, io l’ho citato proprio come esempio di autore in grado di arricchire e trascendere la base autobiografica con esiti artistici, almeno per quanto mi riguarda, non trascurabili. Per te è ombelicale, amen.
    Che poi abbia indirettamente e incolpevolmente prodotto pessimi emuli ci può stare, si può dire di tanti grandissimi autori, anche nel fumetto (Moebius per esempio). In realtà io penso che il limite stia semmai nell’emulare pedissequamente. Il più delle volte la colpa è dell’emulatore, non dell’emulato.
    Se il fumetto ci ha guadagnato a entrare in libreria non so dirlo, non ho abbastanza elementi per dirlo. Non mi è chiaro però il termine di paragone, il fantomatico ed edenico luogo in cui il fumetto era originale, vario, coraggioso e fantasioso. L’edicola? La fumetteria?
    L’edicola, se si escludono i comick book di maggior diffusione, è per lo più appiattita su bonelliani e bonellidi (si è arrivati persino alla bonellizzazione delle bd francesi e dei comic book). Va già un po’ meglio in fumetteria per quanto, stando almeno alla mia esperienza personale, mi sembra che spesso lì l’offerta sia per molti versi condizionata dal tipo predominante di clientela. Probabilmente anche a causa di un circuito più ristretto e di maggiori svantaggi per i gestori.
    A me sembra che, mettendo da parte per un attimo l’aspetto qualitativo, in questo momento la maggiore varietà si trovi nelle librerie della grande distribuzione se proprio vogliamo. Sugli scaffali possiamo trovare affiancati tp di comic book americani, manga, graphic novel (in proporzione assai meno consistente di quanto si sta suggerendo spesso qui), raccolte di strip, bd francesi, riedizioni varie e multiformi di bonelliani, in alcune librerie persino qualche rivista.
    A ogni modo non attribuirei così nettamente ai luoghi di distribuzione le eventuali mancanze delle opere. Per quanto non abbia tutti i torti Troiani a proposito dell’appiattimento sul formato libro (ma su questo ci torno).

    @Troiani: in realtà ho poco da eccepire, su molte cose concordo appieno. In linea di principio mi limito a ribadire che continuo a pensare che le colpe non siano mai, o quasi mai, da attribuire ai “generi” quanto all’utilizzo convenzionale e, come dici tu, sclerotizzato che se ne fa. In tal senso convenzionalità e sclerotizzazioni interessano da sempre e in qualsiasi ambito tutti i generi. È così per forza di cose, ci sono grandi opere originali, vitali e nuove cui fanno seguito emulazioni, codifica del filone inaugurato dalle suddette opere e infine sclerotizzazione e convenzionalità; almeno fino alla prossima grande opera che andrà a scardinare tutto inaugurando una nuova “rinascita” del genere, e così via.
    Insomma è una critica che, per quanto possa essere giusta, rimane talmente generica da non potere essere utilizzata come base per ravvisare né una vera e propria tendenza né tantomeno il carattere precipuo di un macro genere quale può essere il romanzo, il graphic novel, il testo teatrale ecc.
    Ciò che io continuo a contestare qui è l’indicazione dell’autobiografismo come carattere prevalente quando non identificativo del graphic novel. Mi sembra una critica di comodo e generalizzante. Il filone autobiografico ha un certo peso nella proposta di graphic novel contemporanee ma non un peso tale da esaurire e definire l’intero macro genere. A ben guardare le differenti proposte la varietà c’è eccome; gli esempi li ho già fatti ma se volete proseguo. Semmai io noto, rispetto al boom iniziale del graphic novel, proprio una flessione del filone autobiografico.

    Per quanto riguarda il ripiegarsi sul formato libro tocchi un tasto sensibile, per molti versi sono d’accordo con te. Ma mi sembra che qualcosa si stia muovendo anche in tal senso, per il momento più all’estero che in Italia.

    Una nota personalissima (e non del tutto pertinente) sulla costruzione e sull’invenzione narrativa che citi all’inizio. Tu parli di tendenze, come l’autobiografismo, che le danneggiano e mi pare di capire auspicheresti invece proprio un rafforzamento di questi due elementi.
    Lasciando da parte per un attimo l’analisi critica io ti dico invece che preferirei semmai un rarefarsi della letterarietà e delle costruzioni narrative in ambito fumettistico a favore di una riscoperta e di un rafforzamento dell’ambito visivo, del flusso di immagini (e di coscienza), dell’elisione e della sospensione, di tecniche di montaggio più raffinate e/o meno convenzionali.

    Troppi fumetti, ancora oggi, raccontano più con le parole che con le immagini; di molti si potrebbero cancellare i disegni limitandosi a leggere il contenuto dei balloon e poco o nulla cambierebbe.
    Un mezzo che non sfrutta appieno la sua specificità è per forza di cose un mezzo immaturo. Certo poi bisognerebbe stabilire in maniera più chiara qual è la specificità del fumetto…ma è un discorso lungo e non mi pare questa la sede adatta.

    Sto divagando troppo, quindi la smetto.

    A presto.

  21. Io non ce l’ho con le biografie o i documentari a fumetti come genere, sia chiaro. Ce l’ho con la mancanza di stile e di una visione forte. Nella scrittura e nel disegno. La mancanza di idee che viene colmata con la cronaca o il morto illustre per occupare lo scaffale. L’assoluta assenza di un punto di vista originale da mettere in gioco nel racconto. Faccio un esempio positivo, ho apprezzato moltissimo il lavoro di Parisi su Coltrane. O, per restare in ambito Beccogiallo, di Ficarra su Stalag XB. Un altro che fa graphic journalism con uno stile forte è Costantini. Il graphic novel, il romanzo a fumetti, senza una forte identità autoriale è perdente in partenza, secondo me, a prescindere dal genere. E solo un ufficio stampa particolarmente efficace potrà spingerlo, hai ragione, in virtù del richiamo di certi elementi d’attualità. Ma voglio credere che non andrà molto lontano in questo caso.

  22. “Ce l’ho con la mancanza di stile e di una visione forte. Nella scrittura e nel disegno.”

    Quindi il problema non è il graphic novel. Mancanza di stile e visione affliggono indiscriminatamente il fumetto in tutti i suoi ambiti a prescindere dalle distinzioni merceologiche o di genere. Dici bene, è l’identità autoriale a fare il fumetto, ma vale per qualsiasi fumetto dal seriale bonellide al graphic novel più sperimentale.

    A questo punto saremmo più onesti a dire, per quanto possa sembrare ovvio, che il problema sono semplicemente i fumetti fatti male.

  23. Appunto si torni a parlare di fumetti e non di graphic novel…E soprattutto non si usi l’etichetta gn per dare il belletto a opere mosce, che nascondono la loro inconcludenza dietro una patina di falsa letterarietà….Per il resto d’accordo su te soprattutto sul “rafforzamento dell’ambito visivo, del flusso di immagini (e di coscienza), dell’elisione e della sospensione, di tecniche di montaggio più raffinate e/o meno convenzionali” [mi viene in mente Blutch].
    Questo manca, e molto spesso il tono dismesso di alcune produzioni viene spacciato per oro colato, quando in realtà è solo superficialità…

  24. D’accordissimo. Il problema sono i fumetti fatti male, già, sempre, ma sopratutto quando si nascondono dietro il “tema impegnato” per la povertà di idee e l’etichetta “graphic novel” come presunta garanzia di qualità estetica.

  25. E diciamo che su questo siamo già più d’accordo. Ma sia chiaro che si stigmatizza una sovrastruttura, un aprioristico attributo positivo (sia esso l’impegno, il valore artistico/letterario, la pregnanza intellettuale) che è e rimane al di fuori degli eventuali caratteri specifici del graphic novel. Vero è che molti editori su ‘sta cosa ci hanno marciato parecchio sperando in chissà quale incremento delle vendite, però non son mancati pure gli editori che hanno fatto scelte più oculate puntando alla sostanza.

    Anche secondo me l’etichetta è più merceologica che altro ma allo stesso tempo penso sia innegabile che il graphic novel possa essere circoscritto entro caratteri editoriali e artistici un minimo definiti (e che dunque giustificano in parte la categorizzazione). Alcuni autori all’interno di simili coordinate sono riusciti a tirar fuori opere potentissime, varie e validissime.

    Ma è un discorso che si può fare per qualsiasi macro genere di fumetto. Io per esempio non vado a stigmatizzare la categoria “strip” in sé perché un buon 80% delle strip fanno schifo.

    Mi sembra quindi per lo meno una critica ingenerosa, specie considerando che, come faceva notare Manuele Fior poco sopra, l’etichetta ha permesso di produrre e leggere cose che difficilmente avrebbero avuto anche solo una collocazione editoriale. Mi pare che questa cosa sia passata un po’ in sordina ma è una considerazione validissima.

    Quindi sopporto volentieri tutti gli “effetti collaterali” di cui stiamo discutendo se poi mi permettono di trovare in libreria Asterios Polyp o LMVDM.

    Considerazioni finali:

    1-Blutch è un grandissimo, mi spiace che qui in Italia non abbia il successo che si merita.

    2- Ora mi lapiderete, ma devo confessare di non amare molto il nome “fumetto” se non per il valore storico che ormai porta con sé. Lo ritengo – sineddochico com’è – per molti versi improprio e poco specifico rispetto ai caratteri del medium. Non è il balloon che fa il fumetto del resto :P.
    Mi rendo conto però che un discorso analogo si potrebbe fare per tantissimi termini quindi non pretendo che la mia piccola obiezione abbia un reale valore critico. Ok, ora potete lapidarmi.

    3 – Graphic novel comunque come termine fa decisamente più schifo ed è ancor più improprio.

    Ciao

  26. Marco Pellitteri

    Un paio di pensieri terra-terra, di tipo pragmatico, ma la cui origine non credo sia banale. Le possibilità possono essere selezionate anche tutte. Fatevi questo test mentale. Penso che molte risposte arrivino poi da sole.

    Cosa vuoi da un fumetto?
    (1) divertimento/eccitazione/azione, (2) passione/sentimenti, (3) godimento estetico, (4) elevazione morale/artistica, (5) apprendimento di contenuti, (6) materiale visivo per masturbarsi, (7) altro (specificare nella propria testa)

    Quanto sei disposto a spendere per un fumetto per ogni 20 pagine di storia?
    (1) meno di 1 euro, (2) da 1 a 3 euro, (3) da 3 a 6 euro, (4) oltre 6 euro.

    Dove vuoi trovare il tuo fumetto?
    (1) Nell’edicola sotto casa, (2) in fumetteria, (3) in libreria, (4) su internet.

    Preferisci che il tuo fumetto sia…
    (1) a colori, (2) in bianco e nero, (3) è indifferente.

    Preferisci…
    (1) i fumetti seriali con personaggi fissi/ricorrenti, (2) storie autoconclusive, (3) è indifferente.

    Come giudichi la presenza di errori linguistici nei fumetti?
    (1) Quali errori? Non me ne sono mai accorto, (2) ci si può passare sopra: sono fumetti, (3) inaccettabile: il fumetto è letteratura, (4) gli errori si trovano ovunque, dai quotidiani ai romanzi, i fumetti non fanno eccezione.

    Se un fumetto viene da te ritenuto bello esteticamente ma dalla storia noiosa, cosa fai?
    (1) Lo compro: mi piacciono i disegni a prescindere dalla storia, (2) lo sfoglio e lo ripongo sullo scaffale, (3) ne parlo male su CsF.

    Saluti.

  27. Mi piace Helvidius! Unica cosa, leggermente più sintetico, e poi hai detto più o meno tutto quello che io gia dissi al Queirolo dopo una sua uscita così, qualche tempo fa. Non ho capito perché ogni tanto i ragazzi si preoccupano per l’eccesso di biografie. Anche all’altro giro, non so se ve lo ricordate, c’era stato un piccolo caso perché poi era rimbalzato anche da Smoky, mi ricordo bene? C’era di mezzo una dichiarazione di quello spagnolo che fa robe da censura non riesco a ricordare il nome… Vabè è troppo presto, non sono neanche le 9.00, buonagiornata. Oltre all’articolo del Queirolo, i miei commenti sono come sempre bellissimi, vi consiglio di leggerli: https://conversazionisulfumetto.wordpress.com/2012/02/25/romanzo-e-autobiografia-ovvero-il-graphic-novel/

  28. La cosa che mi piace del mondo del fumetto sono proprio queste cosiddette “pippe”, che invece sono molto interessanti, e che in altri ambiti sono abbastanza rare. Per esempio ultimamente nel mondo dell’arte contemporanea si parla più di cifre, acquisizioni e investimenti che di contenuti, mentre almeno il nostro ambito ci consente di fare interessanti considerazioni su valori formali e linguistici. Sembra che la discussione sia partita anche dalle mie due paginette su XL, ma non dimenticate che si tratta di due paginette ironiche, non di una critica feroce, e gli espedienti usati in quelle sei vignette li ho usati anch’io varie volte. Ho risposto a una serie di domande di Tonio, in cui mi chiedeva se il GF si stava sclerotizzando, e io ho detto la mia, che però non esclude né il valore del lavoro di diffusione di case editrici come la Coconino, né il fatto che si continui a fare ricerca, e che a volte si riesca anche ad influenzare il mainstream bonelliano (la serie delle “Storie”, nasce con questo intento, anche se con risultati alterni). Poi alla fine si giudica il lavoro per quello che è, e se si fa un fumetto autobiografico e giornalistico e di denuncia sociale riuscito, la cosa va benissimo, non è che io vado a giudicare un fumetto a prescindere, non ho mai avuto preconcetti sui comics e non me li farò certo venire adesso.

  29. Massimo, le tue due pagine sono molto divertenti. Io mi identifico soprattutto nel momento di buio assoluto 😉

  30. Visto che oramai GN è un termine che si porta su tutto, faccio un vaticinio: tra un po’ di tempo assisteremo alla riedizione di una vecchia polemica, ovviamente corretta e aggiornata nei suoi termini di base:
    graphic novel popolare VS graphic novel d’autore
    (e già ora, aprendo il sito di Coconino, la descrizione del sito presente sulla barra è: Coconino Press l graphic novel d’autore).

  31. @Trinchero: grazie. Proverò a essere più sintetico in futuro ma non prometto niente. 😛
    Grazie pure per il link, i punti di contatto con questa discussione non mancano in effetti.

    @Giacon: sono d’accordissimo su tutto tranne che sugli esiti altalentanti de Le Storie bonelliane, per me gli esiti son stati tutti negativi (in maniera più o meno marcata, ovviamente). Finora si è dimostrata una collana fuori tempo, nata già vecchia. Se si esclude il fatto che si tratta di storie autoconclusive tutto il resto rientra più o meno decisamente entro i canoni bonelliani classici (giusto nella storia di Recchioni si può scorgere un timido tentativo di sfuggire al didascalismo narrativo tipico dei bonelliani ridando un minimo di funzione narrativa all’immagine) con la solita tendenza a rifarsi pesantemente a titoli cinematografici più o meno noti (No Smoking di Ruju è in tal senso l’esempio più deteriore). Ma sto divagando come al solito…

  32. Sono contento di aver scritto questo post, soprattutto per la discussione che ne è venuta fuori…
    p.s. Helvidius se puoi/vuoi contattami in privato (anche su fb) 😉

  33. @Helvidius, sul giudizio delle Storie (risultati altalenanti), mi sono tenuto sul vago e gentile. Fin’ora non ho visto miracoli, a parte effettivamente la storia di Recchioni che almeno ci prova. Siamo lontani dalla qualità di Un Uomo un Avventura, operazione a cui evidentemente Le Storie si ispira. Però almeno un tentativo c’è, la differenza la faranno gli autori, se l’operazione continuerà anche con autori “esterni” a Bonelli. Dopotutto quando Napoleone e Dix li facevano Ambrosini e Bacilieri lo stacco con il resto era evidente. In genere io sono più felice quando si apre una collana di fumetti (anche piena di difetti), che quando si chiude.

  34. @Helvidius
    concordo con tutte le tue divagaz sul graphic novel e dintorni, ma dissento nettamente sul giudizio quasi totalmente negativo che dai delle “Storie” bonelliane.
    Fino a ora, l’unico episodio davvero (DAVVERO!) brutto è quello scritto da De Nardo, “La rivolta dei Sepoy”, una roba vecchia e ammuffita, con snodi di sceneggiatura così prevedibili e telefonati da far pensare a Capitan Miki.
    Le altre storie, quale più, quale meno, mi paiono tutte scritte in maniera più che buona, e disegnate anche meglio.

    Dopo di ché, e premesso che quello bonelliano è comunque un fumetto “di sceneggiatura”, che tiene la barra bella dritta sulla preminenza del racconto, mi sa che ti sei fermato dopo la terza o quarta uscita: altrimenti, a proposito della funzione narrativa dell’immagine, avresti forse notato come da questo punto di vista funzionino benissimo sia il 5 (“Il lato oscuro della luna”) che il 7, appena uscito (“La pattuglia”), nei quali visibilmente (!) testo e disegni deragliano e vanno in direzioni opposte, potenziandosi a vicenda.

    Quanto a “No smoking”, non nego che ogni tanto i bonelliani indulgono in titoli che richiamano pellicole famose e (più o meno) attinenti alla vicenda, ma in questo caso mi pare più sensato ricercare l’ispirazione per il titolo negli onnipresenti cartelli di divieto di praticare il tabagismo, che in un film francese di 20 anni fa. Non fosse altro perché il titolo si attaglia perfettamente alla vicenda narrata, con la quale invece il film di Resnais non c’entra un caz.

  35. @Troiani: ok, prossimamente ti contatto. Magari dimmi qual è il tuo indirizzo mail, non sono su facebook.

    @Giacon: sono d’accordissimo sia sul discorso Ambrosini/Bacilieri sia sulla frase finale.

    @matteot: de gustibus. Per me la collana ha aperto malissimo con una storia al contempo convenzionale e reazionaria dal punto di vista storico/politico. Un pessimo e semplicistico punto di vista sulla rivoluzione francese. Casertano è un bravissimo disegnatore, ma qui mi è parso un po’ meno efficace che in altre sue prove. Sul secondo numero ho già detto, il mio giudizio non è del tutto negativo ma rimane al massimo un buon esercizio che coinvolge poco o nulla, senza infamia e senza lode. Accardi invece mi è sembrato molto bravo.
    Sulla Rivolta dei Sepoy concordiamo, aggiungo pure un Brindisi assai svogliato e poco incisivo.
    Per quanto riguarda No Smoking e le citazioni cinematografiche non mi riferivo al titolo in sé quanto al meccanismo narrativo di fondo che richiama vari titoli cinematografici (I soliti sospetti in primis, ma non solo), meccanismo portato avanti poi in maniera piuttosto maldestra e con la solita incondizionata aderenza a cliché di genere. Ambrosini mi piace moltissimo, ma in questo caso la sua prova mi è sembrata alquanto altalenante.
    Della storia di Bilotta invece ho apprezzato qualche spunto e gli riconosco in effetti una migliore e meno didascalica dialettica fra testo e immagini (pur entro i limiti dei paletti bonelliani), rimane invece (almeno secondo me) il problema dei dialoghi spesso poco riusciti, stereotipati, fin troppo “costruiti”. Capisco si tratti comunque di fumetto popolare, ma spesso provare a recitare ad alta voce i dialoghi dei fumetti bonelliani produce effetti che vanno dallo straniante all’esilarante. La storia in sé comunque non mi è piaciuta molto, ma lo dico più per gusti personali che per reali mancanze del soggetto. Ciò che proprio non mi ha convinto sono i disegni di Matteo Mosca: rigidi, pesanti, spesso poco o nulla espressivi, con diverse incertezze anche tecniche e stilisticamente molto “vecchi”. Per molti versi da questo punto di vista mi è sembrato di leggere un bonellide anni ’90, ferma restando una maggior cura dei particolari nelle singole tavole.
    Il sesto numero invece l’ho comprato ma non ancora letto, il settimo invece pensavo di saltarlo ma magari ci faccio un pensiero se, come suggerisci, è un’eccezione positiva.

  36. Confermo il 7 come eccezione “positiva” ne Le Storie: consigliato con le dovute pinze. Per me l’altra eccezione è giusto il 6. Effettivamente solo “La rivolta del Sepoy” mi è risultata indigeribile, abbandonato dopo poche pagine.

  37. @Helvidius: contattami all’indirizzo koine81@gmail.com…;)

  38. Pingback: “Ancora tu?!? Ma non dovevamo vederci più?!?” | Conversazioni sul Fumetto

  39. Pingback: Sulla Salade Niçoise di Baudoin, o prima il segno e poi la storia?!? | Conversazioni sul Fumetto