Grant, Alan e l’Iperlocalizzazione

di Antonio Solinas

Grant Morrison camuffato da Alan Moore

Ciclicamente, l’accusa che torna nei confronti di Alan Moore e Grant Morrison (insieme a Peter Milligan probabilmente i più grandi scrittori di comics britannici di sempre) è quella di essere, genericamente, “bolliti”.

Al di là del fatto che generalmente l’accusa in realtà nasconde semplicemente solo un evidente sdegno da fanboy nei confronti di chi ha deciso di lasciarsi alle spalle la precedente fase di Doom Patrol o di Watchmen (o di altre opere ugualmente valide, a voi la scelta), la questione è interessante perché, apparentemente, sembrerebbe una contraddizione logica quella di appioppare lo stesso rimprovero a chi, lasciandosi alle spalle anni di lavori “personali” si getta a capofitto nel vortice supereroistico così come a chi, nella maniera opposta, invece, dal supereroismo si distacca lanciando l’equivalente di un (ripetuto) anatema. In maniera egualmente interessante, è sintomatico che, in qualche caso significativo, siano i fans “hardcore” di Moore a lodarlo chiamando invece Morrison “bollito” e viceversa, di fatto riportando la “faida” fra i due scrittori, notoriamente poco amici, semplicemente a “categorie dello spirito” diverse e posizioni in contrasto, a livello artistico.

Vignetta da “Invisibles”

In realtà, è solo la confusione mentale di chi muove le critiche ai due scrittori a creare questa divisione. Nel più puro spirito “invisibile”, nelle intenzioni, le operazioni compiute da Moore e da Morrison, al momento, sono esattamente uguali. È uguale lo spirito, è uguale la materia prima, è uguale il modus operandi. Quello che cambia è il contesto e, in alcuni casi, i risultati. Ci torneremo più avanti, ma per capire che non si parla di aria fritta, chiariamo una cosa: in questo momento, Moore e Morrison (ed è evidente con Batman e con la Lega degli Straordinari Gentlemen) non stanno facendo altro che lavorare alla ridefinizione del concetto di eroe nell’era “post-cinica”. Nel mondo del villaggio globale e globalizzato di internet (da cui, significativamente, nella vita reale, i due si affrancano in maniera quasi totale), il “post-modernismo” è diventato la norma, rimasticando anche i superpsicopatici figli del Rinascimento Americano, che oggi non sono più semplicemente copie scarse di buone storie, ma un ingrediente integrale dell’editoria a fumetti (di cui i supereroi, almeno nel mercato anglo-americano, restano sempre la fetta più grossa e riconoscibile). Sia Moore che Morrison vengono da tentativi precedenti in questo senso (secondo la felice provocazione di Mark Millar, ad esempio, il numero più bello del 1964 di Moore e soci non sarebbe altro che il numero 53 della Doom Patrol di Morrison). In quei casi, però, l’approccio “disingenuo”, sebbene condotto con maestria invidiabile (vedi Supreme di Moore) aveva evitato di dare i frutti sperati, ovvero cancellare anni di brutture post-Watchmen (di cui Moore ha poca colpa, per la verità) per riportare tutto ad una dimensione più “pura”, ingegnosa e liberata dell’intrattenimento.

Oggi la malattia è più terribile (per Moore sono da cancellare gli ultimi 15 anni di mainstream, e a occhio e croce Morrison, con tutti i distinguo del caso, non credo che sia su posizioni totalmente inconciliabili), e chiama rimedi più drastici. La materia prima su cui lavorare, per i due antagonisti è la stessa, come detto: l’essenza dell’eroe senza tempo e per ciò stesso moderno. Ma mentre Moore va a ripescare dal pulp tout court, chiamando in causa (in maniera non citazionistica, attenzione!) gli eroi più iconici, da James Bond a Jerry Cornelius, Morrison si “accontenta” dell’archetipo dei propri “super-Gods”, ovvero i personaggi DC, l’essenza stessa del supereroismo. Batman, in particolare, mostra un insieme di sfaccettature che nessun altro eroe di quel livello, Superman incluso, possiede, e quindi incarna già in sé quelle diversità strutturali e tematiche per le quali, ad esempio, Moorcock ha dovuto inventare l’Eternal Champion. Una delle cose più interessanti per quanto riguarda questo discorso, da parte di Morrison e Moore, riguarda il modus operandi: nella creazione dei propri mondi, i due scrittori scelgono un metodo che, per comodità, chiamerò di “iperlocalizzazione”. Moore deve ricorrere ad una iperlocalizzazione spaziale, che gli permetta di riunire insieme personaggi legati a contesti diversi. Morrison, d’altro canto, avendo Batman, si dedica a una iperlocalizzazione temporale, comprimendo oltre la massa critica sessant’anni e più di continuity in modo da farla diventare un “qui e ora” funzionale alla propria estetica narrativa (non è un ossimoro).

Particolare di una compertina de “La lega degli strarodinari Gentlemen”

In maniera conseguentemente inversa, il processo di iperlocalizzazione spaziale di Moore si basa su una compressione temporale: lo scrittore di Northampton deve inventare un contesto che dal punto di vista cronologico permetta l’inserimento quanto più fluido possibile delle diverse facce dell’eroe da feuilleton (dapprima in maniera letterale – nei primi due volumi della Lega, lo sceneggiatore deve andare a scovare una finestra temporale in cui le avventure possano effettivamente svolgersi – e successivamente ideale – come nel caso di James Bond nel periodo della Guerra Fredda e di Cornelius nella Swingin’ London), mentre l’iperlocalizzazione temporale di Batman da parte di Morrison ha come necessario punto di partenza una compressione spaziale che porta alle estreme conseguenze quanto già fatto dallo stesso Morrison in Arkham Asylum: il mondo “fisico” del Cavaliere Oscuro è ridotto in maniera esponenziale fino a diventare semplice proiezione cerebrale dell’Uomo Pipistrello. L’uso dei materiali di partenza, in questo senso, è funzionale alle premesse di base, e con risultati ancora una volta, curiosamente, simmetrici: se infatti Morrison, per Batman & Robin usa come “carburante” proprio il Killing Joke di Moore/Bolland, la Lega di Moore diventa significativamente una specie di cellula di The Invisibles, che rispetta tutti i topoi morrisoniani, dai cinque membri alla fluidità sessuale alle continue fratture ai dubbi sul senso di una qualunque “missione”.

Vignetta da “The Filth”

L’unica differenza è quella del contesto: mentre Morrison, dopo anni di “ricerca del sé” culminata con gli esaurimenti nervosi di The Filth, riesce a trasporre nelle proprie opere “corporate” un senso di coesività che sembra quella di uno sceneggiatore al top della propria carriera, Moore, quantomeno negli ultimi due episodi della League, appare come uno scrittore la cui opera “unfocused” sembra riflettere ed echeggiare, in maniera penosamente sospetta, i momenti meno felici della vita privata (in primis, l’implosione del rapporto con la ex-moglie Phillys). E non lo aiuta, in questo, l’iperlocalizzazione di sé stesso, visto che ormai sembra aver deciso di non lasciare mai più l’amata Northampton.

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