Una conversazione fra Igort e David Mazzucchelli

Questa imperdibile intervista a David Mazzucchelli condotta da Igort è apparsa originariamente sul volume Territori del racconto a fumetti della rivista Mano. Ringrazio Igort per avermi dato la possibilità di pubblicare questo articolo nella sua interezza.
Data la lunghezza del post, ho preferito spezzarlo, quindi per leggerlo cliccate sul link dopo l’immagine.
-Andrea  Queirolo

Mazzucchelli, particolare da “Città di Vetro”

IGORT: Se penso alle tue storie mi viene in mente una visione molto letteraria, anche se, a parte Città di Vetro, hai sempre lavorato con storie brevi. E’ curioso perché l’immagine del tuo lavoro più recente si basa su questa visione. Racconto dilatato e ritmo da romanzo.

MAZZUCCHELLI: Io voglio raccontare storie lunghe. Ma per cominciare pensavo sarebbe stato molto meglio raccontare delle storie più contenute.

I.: A un certo punto hai deciso di dare un taglio alla tua carriera. Lavoravi su dei personaggi molto noti e molto amati. Avevi ottenuto un grande successo commerciale. Eri sul punto di diventare una vera e propria star del mercato mainstream e hai deciso di lasciare ogni cosa per metterti ad autoprodurre una rivista tua, con tutto il lavoro che questo comporta. Quando vidi i primi bozzetti con il tuo nuovo stile, mi ricordo, era sulle pagine del “Comic Journal”, io avevo molto amato il tuo Batman Year One, quando vidi questi disegni pensai: “Mio Dio, è diventato matto”.

M.: Questo è esattamente quello che disse Rob Liefield, il disegnatore della Image, quando vide Città di Vetro. Stava facendo una sessione di disegni per il pubblico in una libreria e quando il libraio gli disse che mi conosceva lui chiese: “Ma cosa sta facendo adesso, mi è piaciuto Batman ma non so, fa ancora fumetti?” Allora il libraio gli mostrò l’adattamento dal romanzo di Paul Auster, Città di vetro, e gli disse che lavoravo a “Rubber Blanket” da anni. Allora lui chiese: “… ‘Rubber Blanket’? Cos’è?”. Così il libraio gli diede una copia. Lui la sfogliò e disse: “Ma gli è andato in pappa il cervello?”. (ridono) Prima stavi guardando quella tavola di Batman che ho fatto quando avevo sei anni. Lo vedi no? Era proprio quello che volevo fare sin da quando ero bambino. Il Batman che guardavo alla televisione, quello con la testa grande, interpretato da Adam West. Era il Batman più vicini a quello che leggevo nei fumetti. Se prendi un fumetto di Batman del 1964 lo letti, se lo immagini interpretato da un attore in carne e ossa, non può essere che Adam West. E’ lui, esattamente come il Batman dei fumetti. Quando cominciai ad andare al college, a studiare arte e a leggere romanzi, leggevo fantascienza e i pulp come Doc Savage o Conan: poi cominciai a leggere cose un pochino più sofisticate e a vedere film più interessanti e il mio gusto cambiò. Mi piacciono ancora alcune cose della cultura pulp, ma apprezzo anche una complessità maggiore. In altri tipi di lavoro. Allo stesso tempo volevo disegnare i personaggi con cui ero cresciuto, quindi fui abbastanza fortunato a trovare questo lavoro. Andavo ancora al college e credevo che disegnare e raccontare fossero le cose cruciali del fare fumetti. Non pensavo ancora che fosse così importante fare delle storie mie.

Mazzucchelli, vignette da “Batman: Year One”

I.: Poi cosa accadde?

M.: Dopo aver disegnato storie di supereroi per due o tre anni, capii che c’erano delle regole e che queste regole avevano dei limiti rigidi. Questi limiti si possono forzare un po’, ma se esageri la “materia” diventa qualcos’altro e i lettori faticano a riconoscerla. Noi abbiamo forzato questi limiti. Io, Frank Miller prima di me, Alan Moore, Howard Chaykin… Ma per andare avanti sarebbe stato necessario mettere in discussione l’idea stessa dell’eroe. E questa idea era un concetto molto radicato: era esattamente ciò con cui ero cresciuto. Al tempo in cui terminai di disegnare Batman mi resi conto che non volevo più disegnare questo genere di cose. Non sapevo ancora cosa volevo fare, ma capivo che disegnare supereroi non mi interessava più.

I.: Può raccontare come tutto questo, il tuo lavoro nell’industria del fumetto americano, ha avuto inizio?

M.: In principio, per provare se ero capace di disegnare i Fantastici Quattro, avevo realizzato due storie intere. Le avevo scritte e disegnate durante un’estate. E mentre procedevo mi venivano sempre delle nuove idee. Allora pensavo: “OK, ora facciamo succedere questo e poi questo ancora e poi…”. Jim Shooter, che era il caporedattore della Marvel Comics, fu molto gentile e prese a spiegarmi che più o meno ogni cosa era sbagliata nel mio lavoro. Ancora adesso, ogni anno, al termine dei miei corsi, mostro agli allievi la lettera che mi mandò. Per far capire che qualche volta agli inizi, anche se credi di esserci, ti arriva una lettera come questa che ti spiega che il racconto è farraginoso, il disegno impreciso e così via.

I.: Comunque il tuo inizio, rispetto al mondo del lavoro mainstream americano nell’ambito del fumetto, fu in un certo senso privilegiato. Non sei dovuto passare attraverso la gavetta peggiore, fare da inchiostratore, o essere inchiostrato da qualcun altro.

M.: Ho cominciato come matitista. E il mio primo inchiostratore era Vince Colletta. Lo vedo: vedo l’espressione disgustata del viso di Igort, ragazzi. E per darti una idea di quando fosse maldestro il mio lavoro sappi che l’inchiostratura di Colleta migliorò alcune parti. Si, perchè se forse in qualche modo sapevo disegnare meglio di Vince Colleta, da un altro punto di vista ero discontinuo. C’era una tavola buona e una terribile. Vince Colleta da buon professionista rese il tutto davvero omogeneo. Dopo il suo intervento, le pagine avevano lo stesso aspetto, lo stesso livello voglio dire.

I.: Ti impressionò il fatto che Colleta fosse stato uno degli inchiostratori di Kirby?

M.: No, ero impressionato dal fatto che era il peggiore degli inchiostratori di Kirby. (ridono) Ero come un bambino. In seguito arrivai a disegnare Daredevil. In quel periodo lo scriveva Danny O’Neal. Trascorsero due anni e mezzo prima che Frank Miller ricominciasse a scrivere Daredevil. Poi lui arrivò e mi chiese di disegnare le sue storie. Questo fu il principio della nostra collaborazione. Quando ero più giovane e non avevo ancora pubblicato, visitavo di tanto in tanto gli uffici della Marvel per mostrare le tavole. E Frank Miller era molto gentile.Il mio lavoro non era buono, ma lui mi dava dei consigli. Era molto impegnato, ma ritagliava una parte del suo tempo per vedere le mie tavole. All’epoca stava concludendo il suo lavoro su Daredevil e stava cominciando Ronin.

Mazzucchelli, da “Daredevil: Born Again”

I.: Mi sono sempre domandato se voi, in quel periodo, eravate consapevoli della reinterpretazione che stavate facendo. Quella che oggi ha preso il nome di “revisionismo”

M.: Certo. Credo che qualcuno, come Walt Simonson, si proponesse di rinnovare la visione che aveva avuto origine coi fumetti di Jack Kirby. Voleva catturare quello stesso spirito. Altri cercavano di portare in questo mondo i veri problemi. Quelli del mondo reale. Se inserisci problemi reali in un mondo di fantasia, allora hai l’occasione di creare delle problematiche davvero complesse. Può essere interessante. Ma all’interno della cultura dei supereroi puoi arrivare solo sino a un certo punto. Non puoi, ad esempio, spingere troppo sul pedale dell’assurdo, se non in maniera convenzionale.

I.: Come nel melodramma.

M.: Si, come nel melodramma, ma rendendo “medi” certi problemi. Non puoi avere, in un fumetto di supereroi, qualcosa che affronta e risolve un problema. Non so, una cosa diffusa come la tossicodipendenza oppure, per un esempio, la povertà o il problema dei senzatetto… Un supereroe può solo combattere qualche cosa di fisico o magari un gruppo organizzato. Inoltre, se racconti le storie di un supereroe devi sempre tenere conto che gli avvenimenti raccontati non possono cambiarne profondamente il carattere. L’eroe ha per definizione una sua immutabilità. E se lo cambi per davvero, l’eroe non è più tale. Allora la casa editrice deve cessarne la pubblicazione oppure studiare una diversa collocazione, qualcosa per un pubblico differente.

Moebius, un dipinto di “Blueberry”

I.: Proprio prima di questo revisionismo, negli Stati Uniti c’era una grande dicotomia. Da una parte la cultura mainstream e dall’altra la “cultura alternativa”, quella del fumetto underground. In Europa le cose andavano molto diversamente. Per esempio avevamo Bleuberry che era disegnato da Giraud, che poi sarebbe diventato Moebius. La sua visione del western era già, in un certo senso, revisionista.

M.: Si.

I.: Partiva dalla visione dei film di Segio Leone, che era una falsificazione del mito della frontiera. Una visione quasi iperrealisica, un pò come Little Italy se paragonata all’Italia. Era un pò come un superwest paragonato al vero west.

M.: Si, certo.

I.: In Europa era considerato abbastanza naturale cercare di reinventare le cose. Non pensi che il revisionismo, dopo tanti anni di vita separata tra il mainstream e il fumetto con certe problematiche, abbia costituito un ponte possibile tra due mondi tradizionalmente distanti?

M.: Non so. Sono due mondi davvero diversi. Spesso nel mondo underground, o in quello del fumetto “artistico”, non c’è alcuna considerazione per il valore del lavoro mainstream. E la gente che lavora, gli addetti ai lavori, pensa che “sono i loro siano i veri fumetti”. Chi fa nell’industria mainstream qualcosa di più sperimentale o con un disegno meno classico, non lo vedono neppure.

I.: Ma Art Spiegelman cosa ti disse quando lo hai incontrato per la prima volta?

M.: Art mi disse che conosceva il mio Batman. All’epoca stavo facendo i miei primi fumetti da solo. E mi disse che era il primo fumetto della DC Comics che aveva comperato in dieci anni… e… aspetta, hai ragione, mi disse che rispettava anche Alan Moore, e infatti gli chiese una collaborazione come sceneggiatore per Mark Beyer da pubblicare su “Raw”. Spiegelman ha un occhio molto ampio nel guardare il panorama del fumetto (non so chi gli fa vedere le cose perchè credo che non frequenti i negozi di supereroi).

I.: E cosa credi che possa pensare Rob Liefield di un fumetto come Maus di Spiegelman?

M.: Non credo che lo abbia neppure letto. Come ti dicevo: la visione degli operatori del mercato più ampio, il mainstream, è molto ristretta, a loro piacciono i fumetti per la forma. Perchè è fantascienza, anzichè avventura. L’idea di leggere un fumetto che ha un contenuto differente non gli interessa minimamente. Quindi di persone come Rob Liefield posso dirti che… magari sbaglio, non so, ma non credo che lui sia interessato al fumetto per le possibilità narrative del linguaggio stesso, per la estrema varietà che il mezzo offre. No, lui pensa in termini di “Questo tizio ha un bel costume e può volare”. (ridono) Penso che sia davvero così. D’altra parte, anche se penso che il mainstream sia più interessato alla forma che al contenuto, devo riconoscere che spesso la forma ha i suoi aspetti interessanti. Il punto è che non si possono dividere le cose. Il fumetto ha bisogno dei due elementi. E spesso anche chi lavora nel fumetto non ha un grande apprezzamento per il semplice disegnare. L’idea di buon disegno è molto vincolata a certi canoni. Se prendi il disegno di Gary Panther hai un buon esempio. Da una parte c’è chi lo trova magnifico, dall’altra chi lo trova ridicolo. Dipende se la concezione di “bel disegno” è legata a canoni classici o meno…

Gary Panther all’opera

I.: Quindi cosa accadde? Tu facevi Batman, la cosa aveva avuto un grande successo. Il tuo sguardo era stato assolutamente innovativo e ciò nonostante…

M.: Mi sono fermato. Non sapevo cosa volevo fare, avevo bisogno di una pausa. Mi sembrava di stare andando in una direzione sbagliata. Gli editor delle major mi sottoponevano altri progetti, ma sentito di dovermi fermare. Avevo lavorato duro per raggiungere quel punto, ma mi chiedevo “E’ qui che volevi arrivare?”. Così ho cominciato a fare dei disegni molto semplici. Non fumetti, solo disegni. E anche in questo caso l’attitudine che scorgevo nel foglio era verso il fumetto di supereroi. E dovevo fermarmi e prendere in mano, non so, gli acquerelli.

I.: Erano i disegni che vidi su “Comic Journal”?

M.: No, no nessuno li ha visti. Sono disegni orribili. Ho smesso di disegnare per quasi due anni. Dovevo ricaricarmi.

I.: Il periodo in cui hai smesso di disegnare quanto è durato? Intendo: quanto tempo prima di arrivare alla decisione di autoprodurre “Rubber Blanket”?

Mazzucchelli, da “Marvel Fanfare” #40, 1988

M.: Due anni e mezzo. L’ultima cosa che feci fu un storia per “Marvel Fanfare” scritta da Ann Nocenti. Erano dodici-quattordici pagine. E la disegnai con qualche rimando a Harvey Kurtzman. Stavo scoprendo il cartooning. Quando cominciai a disegnare fumetti avevo un tipo di disegno più classico. Una formazione che derivava dagli studi di pittura.

I.: Harvey Kurtzman: un autore molto amato, unico sotto un certo aspetto. Capace di inventare il lavoro volta per volta, cambiando le coordinate, scoprendo nuovi aspetti.

M.: Anche a me interessa molto lavorare in questo senso, se prendi il mio lavoro da Daredevil a “Rubber Blaket” vedi come le coordinate siano mutate. Se guardi questi lavori puoi pensare: “Oh, adesso sta leggendo altri fumetti. Adesso ha imparato qualcosa di nuovo nello storytelling”. Una storia, un chiaroscuro, c’erano piccole cose che per me sono diventate importanti. C’erano braccia e gambe che sembravano di gomma. Senza gomiti o ginocchi. Ma per me era una rivelazione non disegnare l’anatomia come la avevo imparata per lasciare uscire la forma o il gesto.

I.: Cominciavi a dimenticare le concezioni accademiche.

M.: Si esatto, o forse stavo cominciando a omettere la conoscenza accademica. Mi dicevo “Questo è quello che conosco ma ci sono altre cose che funzionano nel fumetto che non ho ancora avuto occasione di esplorare e che potrebbe essere interessante utilizzare”.

I.: Quale era la prima storia che hai realizzato dopo l’esperienza dei supereroi?

M.: La storia era Near Miss.

Mazzucchelli, pagina da “Near Miss”

I.: E quando hai fatto Near Miss pensavi già di creare una rivista tua?

M.: No. L’ho realizzata solo per me, per vedere se potevo fare qualcosa di cui ero felice.

I.: E stavi scoprendo tu stesso un nuovo stile.

M.: Si.

I.: E stavi cambiando gli strumenti, per esempio.

M.: Giusto.

I.: E cominciavi ad usare il pennello.

M.: Si, ma l’avevo usato molto anche in Batman. Non era tanto lo strumento che stavo cambiando quanto il senso di “Cosa tengo e cosa tolgo”, e: “Quanto questa cosa parla da sola”.

I.: Ma penso che probabilmente tu abbia cambiato anche la concezione della linea. Batman è molto controllato. Segni e masse. Una specie di contrapputo. Conosci Lupertz? E’ un artista che usa l’ascia per fare le sue sculture. Le forme sono tutt’altro che levigate o definite in maniera classica. Quando ho visto questi tuoi disegni per la prima volta, ho pensato: “Sta andando in quella direzione”.

M.: Si, capisco quello che dici.

I.: Poi, a un certo punto, hai cominciato a pensare al tuo lavoro in maniera diversa. Eri diventato editore di te stesso, il che significa un sacco di problemi ulteriori. Una volta mi è capitato di intervistare Alan Moore. E lui, quando l’ho chiamato, mi ha chiesto se potevo telefonargli dopo tre giorni. Gli ho detto “Alan, sono solo tre o quattro domande, non una lunga intervista”. E lui: “Si, ma se devo pensare a cose teoriche devo uscire dalla storia che sto scrivendo. Vedo tutto dal di fuori, mi segui?”. Quando diventi editore cominci a vedere le cose dal di fuori e sei portato a chiederti: “Quante persone saranno interessate a leggere questo e questo e questo”.

M.: Esatto. E’ il genere di domande che non mi pongo mai quando disegno una storia. Faccio il lavoro per me e quando decido di pubblicarlo mi metto nella posizione di pensare: “Credo che questo fumetto sia buono a sufficienza per interessare a qualcun altro”. E’ tutto. Quindi nel fare il lavoro di narratore non mi sono mai messo nella condizione di penare da editore. E come editore devo solo guardare la cosa e dire: “So cosa mi piace in questo lavoro e cosa c’è di sbagliato in queste pagine. Ma guardando il lavoro più oggettivamente possibile credo che ci siano abbastanza punti di interesse. Per vedere le reazioni del pubblico e constatare che genere di dialogo possa cominciare”.

I.: Ti sentivi solo nel percorrere una strada simile?

M.: No, Richmond e io abbiamo cominciato questo lavoro insieme. Lei ha incoraggiato molto questa decisione. Dopo aver realizzato Near Miss ho cominciato a guardarmi intorno nel panorama editoriale americano: constatavo che non c’era nulla di appropiato per storie del genere. C’erano antologie di fantascienza o riviste come “Heavy Metal”. L’unico posto minimamente prossimo era forse “Raw”, ma neppure. A quel punto non sapevo cosa fare. Richmond mi consigliò di seguire un corso sulle procedure di stampa. Fu lì che incontrai David Sandlin, era mio compagno di corso. Mi impegnavo a pensare alla stampa e continuavo a ragionare sui fumetti. Frattanto che imparavo la tecnica delle sovrapposizioni della bicromia. Una nuova concezione. Così quando vidi Art Spiegelman, ero deciso a cominciare da capo, come dieci anni prima avevo fatto con la Marvel. Spedii la storia: due giorni dopo ricevetti un colpo di telefono. Era Spiegelman che mi diceva: “Ciao, ho ricevuto il tuo lavoro: mi piace”. Tempo prima aveva letto il mio Batman, ma pensava che Near Miss non rientrasse nella linea di “Raw”. Io volevo fare altre storie di quel tipo. Allora Richmond mi disse: “Perchè non le pubblici tu stesso?”. Era una buona idea. Avevo qualche soldo guadagnato con Batman e decidemmo di fare qualcosa insieme. Con lei si parlava molto di racconto. Aveva numerosi disegni per una serie di dipinti che stava progettando. Più guardavo i suoi bozzetti e più mi pareva che fosse materiale che ispirava un racconto. E abbiamo trovato un ordine. l’ordine esatto che mi permetteva di scrivere un testo basato su quei disegni. Così cominciammo a lavorare. In origine volevamo fare un fumetto povero, sia per la carta che per la tecnica di stampa, come nei fumetti underground degli anni Sessanta. Ma io ero preso dalla tecnica della bicromia basata sul nero e su un colore aggiunto. E volevo sviluppare tutto questo. Cominciai a fare nuove storie e a innamorarmi del lavoro. Pensavo: “Vorrei che la gente potesse leggere questo genere di cose più spesso”. Non può essere un oggetto a buon mercato, forse può essere un veicolo che dice qualcosa di diverso rispetto ai comics che esistono. Formato, design, tipo di carta. Tutto, insomma, ti deve dire che le storie che leggerai non sono esattamente quelle che hai letto su “Raw” nè quelle di “Zap Comics”.

I tre numeri di “Rubber Blanket” autoprodotti da Mazzucchelli

I.: C’è una cosa che mi interessa a questo riguardo. Per me la scelta della bicromia è qualcosa che risale, come interesse, al 1981. Ma per ragioni opposte. Perchè l’idea della bicromia è molto legata ai fumetti che si ristampavano in italia negli anni Sessanta, Flash Gordon o Mandrake o L’uomo mascherato. Questi fumetti alternavano una doppia pagina a colori con una doppia pagina a bicromia; era una cosa povera, fatta per risparmiare. In genere il color aggiunto era il rosso. Era una sorta di sostituzione del colore. C’era il rosso che serviva a evocare l’idea del colore. Quindi, ricordo, in principio pensavo sarebbe stato interessante usare il colore giallo. Una cosa mai usata prima. Era una cosa che mi intrigava perchè noi quando dici giallo intendi anche un genere narrativo specifico. Se leggi un giallo in italia significa che stai leggendo un poliziesco a causa delle prime edizioni popolari che avevano l’appunto una copertina di colore giallo. E io stavo facendo le storie di un detective francese. Poi decisi di sviluppare la cosa con il rosso. Era una idea presa dall’Uomo mascerato. Per me l’attrazione della bicromia è l’evocazione stessa del principio elementare di stampa. Mi piace per questo.

M.: Sono d’accordo.

I.: Mi piace per la sua povertà. E’ la scelta di non usare i quattro colori ma una loro versione impoverita.

M.: Si, lo capisco benissimo. Il motivo per cui ho deviso di chiamare la rivista “Rubber Blanket” è un po’ lo stesso. La coperta di gomma (rubber blanket, n.d.r.) è qualcosa che si mette sulla macchina di stampa. Quindi è una dichiarazione d’amore per il principio della stampa.

I.: Per te utilizzare la bicromia significa lavorare aggiungendo, arricchendo la tradizione della stampa economica americana, quella underground. In europa significa, al contrario, impoverire, è una scelta spartana, perchè per l’Europa la tradizione è…

M.: Full color.

I.: Esatto, grandi albi cartonati a colori. Questa è la tradizione. Per me la bicromia è qualcosa che viene dalla cultura pop. Tu sei andato oltre, è qualcosa di più importante, in un certo senso è qualcosa che diventa una scelta artistica. Non direi, a essere onesto, che la mia sia una scelta puramente pop. Però comunque è una cosa che ha un aspetto pop. Perchè noi la bicromia è, tuttora, vista come “surrogato”.

M.: Qualcosa come una imitazione povera, stai cercando di far passare una cosa per ciò che non è.

I.: Si.

M.: Per me c’è anche un fattore estetico.

I.: In Europa abbiamo la tradizione di questi grandi libri da collezione.

M.: Noi non abbiamo l’equivalente in America. Per noi anche se c’è il colore in ogni pagina questo è però piatto. Sloppy.

Mazzucchelli e la bicromia, da “A Brief History of Civilization”

I.: Ora c’è una sorta di grande attenzione verso la cultura pulp. E questa è una cosa anche un po’ nostalgica. Se noi oggi scegliamo di stampare su un certo tipo di carta sappiamo che non stiamo stampando sulla carta peggiore in commercio. Ma i pulp erano stampati sulla carta peggiore per davvero. Quindi oggi la cosa diventa omaggio ad una certa tradizione, un gioco ironico o poetico. Seth mi ha spedito la pagina di un quotidiano che ha pubblicato due sue tavole. E’ molto grande, formato tabloid.

M.: Ah, anch’io ho realizzato una cosa del genere in America.

I.: Mi sono innamorato di questa cosa piena dei difetti della stampa. Sai, il “fuori registro”. La linea che è troppo inchiostrata. Tutto molto affascinante per me.

M.: Si, anche per me. E’ un pò come i vecchi dischi di vinile.

I.: Quando hai cominciato a sperimentare con la bicromia, era una specie di manifesto.

M.: Quando ho disegnato Near Miss ho fatto delle fotocopie e ci ho aggiunto un secondo colore. Se avessi pensato come editore quando ho pubblicato “Rubber Blanket” avrei detto: “Qui in America esistono due tipi di fumetto: In bianco e nero o a colori”. In quegli anni “Raw” esisteva ancora. C’era chi lavorara a colori e chi in bianco e nero. Non so se qualcuno avesse utilizzato la bicromia. E’ possibile. Io amo il bianco e nero. E’ il linuaggio perfetto per i fumetti. L’inchiostro nero, la carta bianca. Ma sapevo che si poevano trovare delle cose diverse che non erano il semplice bianco e nero. Penso che fosse una sensibilità nell’aria o forse una emplice coincidenza. Ero molto eccitato, pensavo al fatto che avrei sorpreso i lettori. Tre mesi prima che “Rubber Blanket” fosse pubblicato però Dave McKean diede alle stambe Cages. Anche questo in bicromia.

I.: Quando hai cominciato a lavorare a queste storie scrivevi prima la sceneggiatura? Te lo chiedo perchè noi di Valvoline all’epoca ci interrogavamo molto sulle diverse prassi. Sperimentavamo. Per esempio Fuochi di Lorenzo Mattotti era stato realizzato in maniera coraggiosa. Procedeva creando le immagini. E la storia seguiva. Si diceva: “Ci sono due tipi di regia, una di attori e una di espressioni. Quindi se vuoi lavorare nella direzione dell’improvvisazione grafica non la puoi mai usare perché per questa è necessario sapere cosa i personaggi dicono. E se improvvisi e non sai cosa dicono la cosa si trasforma in un gioco gratutito. Altrimenti se fai una regia di attori. Puoi prendere il personaggio e farlo correre, aspettare, osservare.

M.: E questa è anche la differenza principale tra i due metodi del fumetto in America: lo stile Marvel e lo stile tradizionale. Lo scrittore ti dà il resto con specificato tutto. Le inquadrature, le vignette, le espressioni. Tutto è indicato. Ma il metodo della Marvel era molto diverso. Stan Lee e Jack Kirby avevano un breve colloquio e Kirby si metteva al lavoro. In pratica l’intero fumetto era disegnato prima che il testo fosse scritto.

I.: Davvero?

M.: Si. Non lo sapevi? Per moltissimi anni si è lavorato in questo modo.

Mazzucchelli, copertina da un numero di X-Factor

I.: Jack Kirby lavorava così?

M:: Certo. Più o meno. C’erano delle annotazioni tipo: qui fa un discorso sull’eroismo. Oppure qualcos’altro. E Kirby riusciva a farlo perchè era uno che sapeva raccontare le storie. Ma non tutti sono Jack Kirby. Quando io cominciai a lavorare alla Marvel lo scrittore ti dava tre pagine e questo era il plot.

I.: Non c’era scenggiatura?

M.: No. E tu dovevi sviluppare il racconto in ventidue pagine, da disegnatore. Questo era un buon metodo per imparare a raccontare.

I.: Capisco. Questo mi fa pensare al mio amico Loustal che si lamenta spesso a proposito della sua collaborazione con Charyn o Paringaux: “Mi danno solo qualche pagina dattiloscritta, un racconto. Ed è tutto. Io devo farne un fumetto”.

M.: Questo è quello che chiamiamo “Marvel style”. E non ho mai pensato che fosse male. Perchè se lavori nello stile Marvel tu controlli lo storytelling. Però poi arriva lo sceneggiatore e magari aggiunge i testi completamente sbagliati nei balloon. Se lavori sullo script e sai esattamente cosa dicono i personaggi è un processo molto diverso.

I.: Quando lavori a queste storie tu scrivi il testo prima?

M.: No. Io lavoro in molte maniere diverse e tu come procedi?

I.: Io sperimento. Per 5 è il numero perfetto, per esempio, scrivo il testo prima di disegnare ogni capitolo, faccio lo storyboard e procedo a nuove stesure. In genere ne scrivo quattro versioni.

M.: Capisco. Io lavoro su una idea base e una volta che il plot si delinea, cerco di suddividerlo in pagne. Di solito creo la struttura e poi scrivo sapendo che genere di ritmo ho in testa. Se mi accorgo che una scena non mi serve la eliminio. Qualche volta devo cambiare in maniera da ottenere il ritmo giusto. Se dicido che per una scena ho bisogno di due o quattro pagine, può accadere che mi metta a scrivere prima il testo. Oppure testi e disegni vengono elaborati insieme.

I.: Quindi le storie sono come una improvvisazione jazz.

M.: Non esattamente. Guarda, qui ci sono dei testi scritti e dei balloon vuoti. non ho ancora messo i dialoghi in questi balloon. A volte, se scrivo i dialoghi per riadattare una scena, può anche capitare che rifaccia i disegni. Altrimenti se sento che mi serve aggiungere qualcosa, e non so ancora esattamente cosa, uso questo metodo: lascio lo spazio vuoto. In questo modo riesco a capire, ed è un modo interessante perchè può capitare che cancelli le parole e scriva dei nuovi dialogi che completano i precedenti.

Mazzucchelli, originale della copertina per la raccolta in volume di “Batman: Year One”

I.: Non pensi che forse queste scene viste con gli occhi di oggi siano legate molto strettamente al lavoro di Batman?

M.: Cosa intendi?

I.: abbiamo una concezione dell’essere umano che è la stessa concezione che tu hai messo in Batman.

M.: Si, è la stessa idea.

I.: C’era inoltre questa visione di Gotham City come una città reale. ora: la cosa che stava accadendo da noi all’epoca era esattamente l’opposto. Alcuni autori, io stesso, stavamo lavorando su una idea mitica della città. “Architettura utopistica” per creare una sorta di magica proiezione della città.

M.: Penso che questa visione fosse corretta e probabilmente anche più interessante della mia idea. Se oggi dovessi affrontare questo genere di rappresentazione adotterei un approccio molto più espressionista.

I.: Ma la tua visione era interessante perchè colloca l’essere umano in una città che era osservata da un punto di vista mlto umano. Sai, quando ho visto la tua citazione da Hopper ho pensato…

M.: … che aveva un senso.

Mazzucchelli, vignetta da “Batman: Year One”

I.: Si, assolutamente. Ho pensato: “Al suo posto anche io avrei messo questo”. Era una specie di manifesto: Batman visto come realmente è. Visto anche da un’ottica un po’ patetica.

M.: Si, si, hai ragione.

I.: Forse sto cercando una visione da Reader’s Digest della psicologia ma ho avuto l’impressione che tu avessi sentito il limite dei supereroi.

M.: Forse la mia idea, all’epoca, era quella d’inserire i personaggi di questo tipo nel mondo reale. Quindi il mio pensiero era rivolto principalmnente alla quotidianità delle cose. Batman ha una cintura pesante, stivali pesanti ecc., come può correre? Non era l’idealizzazione dell’eroe. Non era una visione espressionista. Era una visione legata a quello che volevo rappresentare, la pura e semplice vita di ogni giorno. E’ da lì che è sempre venuta la mia ispirazione. Non credo che sarei un buon disegnatore di fantascienza, con il suo aspetto hi-tech, le astronavi, i macchinari ecc., perchè credo che nel mio lavoro la cosa principale sia osservare le piccole cose della vita. E’ strano in un certo senso che io abbia affrontato Batman, e quando l’ho fatto è stata una sorta di azzeramento. No, Batman deve muoversi più nello stile di Bob Kame, il suo creatore. O come nei film degli anni Sessanta, quella era la vera concezione di Batman.

I.: Quando lo hai fatto volare con il bat-plano: quella era davvero la concezione primitiva di Batman, era Bob kane che guarava Leonardo da Vinci e gli studi sul volo. Batman appare davvero naif. Da questa concezione, da questo tuo sguardo io ritengo sia stato influenzato profondamente anche Bruce Timm per la creazione delle nuove serie televisive di Batman. In seguito anche Steve Rude in World’s Finest che ridefiniva la struttura dei “mondi che si incontrano”. Credo sia nata una nuova era nell’osservazione di questo genere di eroe.

M.: L’idea prevalente che avevo di Batman, quando l’ho fatto era un’idea in un certo senso accademica, e se guardo al primo Batman di Bob Kane, penso che oggi non farei la cosa come la feci anni fa. Forse avrei un approccio più espressionista. A quei tempi guardavo all’originale. Con tutte le inquadrature angolate, distorte, piene di ombre, definite secondo una concezione non realistica dello spazio. C’erano delle prospettive completamente sbagliate, che nel complesso funzionavano. Questo è Batman. Come Dick Tracy, bianchi e neri. Pensati nel modo migliore. Quindi quando guardavo i disegni del primo Batman, osservavo con lo spirito di chi vuole semplificare per arrivare alla massima leggibilità. Avere delle semplici linee è una delle cose magiche del disegnare. Puoi mettere una linea e questa diventa solida.

Mazzucchelli, da “Daredevil: Born Again”

I.: Questo fu un grande cambiamento dai tuoi lavori precedenti. Uno scarto.

M.: Feci quello che avevo in testa. Venivo da Daredevil che era molto più definito, molto più “bella linea”. E questo era quello che tutti si aspettavano da me: che facessi un lavoro di quel genere. Ma quanto portai le prime pagine di Batman fortunatamente il caporedattore dell’epoca, Dick Giordano, capì subito cosa stavo facendo, gli piaceva questa specie di mood alla Alex Toth, o alla Caniff. ma temevo che i lettori l’avrebbero detestata. Che dicessero cose tipo: “Cosa fai? Questo sarebbe Batman?”. Ma io ero convinto di fare il lavoro in quel modo, e le poche persone vicine mi incoraggiavano ad andare avanti, e così venne pubblicato. Dopo qualche anno fui davvero sorpreso di trovare altri artisti che si misuravano con la mia stessa idea di Batman, o con qualcosa che era direttamente ispirato da quella visione. Non sapevo neppure se sarebbe stato accettato eppure…

I.: Molte persone in quel periodo parlavano del Batman di Frank Miller, un Batman così “Michael Douglas”, così macho e vincitore tutto sommato.

M.: Si.

I.: Però non trovo tante tracce nel lavoro degli ultimi anni di questa visione dell’eroe. Mi pare che la tua visione, molto più minimale, in fondo abbia prevalso.

M.: Probabilmente perché la mia visione era più “accessibile”, forse perché era più umana e forse perché più gradevole. Nel suo disegno Miller spinge la deformazione alle estreme conseguenze, talvolta può persino diventare orribile. Non è classico come il lavoro che posso fare io e quindi non è così accessibile al pubblico quanto le cose che disegno io, che contengono ancora degli elementi di classicità. Se guardi il mio Batman la composizione di ogni vignetta ha un suo equilibrio. Non è folle, non è Jack Kirby, non ci sono elementi che volano fuori dalla pagina in maniera scomoda. E’ come se guardassimo da un palcoscenico. In questo senso penso che il mio lavoro sia più accessibile.

I.: Io credo che tu abbia portato al fumetto un particolare tono della voce. Questo tono è presente in Batman Year One ma anche nelle tue ultime storie.

M.: Si, capisco quello che intendi, credo ci sia una certa pace nel mio lavoro.

I.: E questa specie di oggettività che metti in Batman è… cos’è l’oggettività se non una vista da più distante? E’ antimitica. E’ il principio del cinema, Buster Keaton, Charlie Chaplin. Guardi l’uomo e ne osservi il lato ridicolo.

M.: Ti racconto una cosa buffa che è capitata quando Batman fu pubblicato. Qualcuno che di solito non legge i fumetti mi guarda mentre disegno e dice: “Sembra il vero Batman”. Capisci? La cosa che pensavano era che il “vero Batman” fosse quello della versione televisiva con Adam West. Chi non legge fumetti pensa che Batman sia nato nel 1966. E chi vede i miei disegni pensa subito ad Adam West nel suo costume. E’ vero. Il mio Batman non sembra grande e pauroso. E’ solo un tizio in costume che cerca di fare del suo meglio.

Mazzucchelli, vignetta da “Discovering America”

I.: Quando ti ho incontrato per la prima volta avevi pubblicato i primi due albi di “Rubber Blanket”. In queste storie mi colpiva la semplicità, c’è Hopper, c’è Carver: ci sono cose semplici e intime. Mi ricordava Morte di un commesso viaggiatore, sai quella versione cinematografica con Dustin Hoffman in cui si sono ispirato alle luci e alle atmosfere dai quadri di Edward Hopper. Ho pensato che questa atmosfera fosse esattamente quello che serviva a un testo così.

M.: Si.

I.: Io penso che tu stia lavorando in quella direzione. L’attenzione che hai per i particolari… C’è quella scena di due mani che strizzano una fetta di limone in una tazza di the. Ecco io penso che nel fumetto non si faccia abbastanza attenzione a questi particolari apparentemente insignificanti.

M.: E’ una cosa molto importante per me, specialmente per questa storia che tratta davvero di piccoli avvenimenti. Qualcosa accade in ogni momento, ogni momento è importante per questo. E se prendi la sceneggiatura e la leggi, ti rendi conto che è solamente una conversazione di tre, quattro pagine. Il punto era: come renderla viva nelle pagine di un fumetto in modo che i gesti dei personaggi esprimano quanto le parole che pronunciano.

I.: Questo ci porta diritti in Giappone. Mentre cominciavo a studiare il manga con il mio editor, il signor Tsusumi, gli dissi: “Credo di aver capito che il manga somiglia al cinema”.

M.: Si.

I.: Ma per lui era sbagliato. Il manga è come il teatro. Unità di tempo, luogo e azione.

M.: Recentemente sono arrivato a pensare che i fumetti e il teatro hanno qualcosa in comune. Di solito si pensa il cinema collegato al fumetto. Ci sono certamente delle vicinanze tra i due mezzi, ma anche delle grandi differenze. Il fumetto è una sorta di letteratura, ma molto visiva. Qualcosa legato alla prosa, molto vicino, in uno strano modo, anche al teatro. C’è una sorta di palcoscenico dl quale vediamo la scena narrata. Mentre se guardi un film, il coinvolgimento è molto maggiore. Il regista desidera, in genere che tu dimentichi di essere seduto in poltrona. Quando vedi uno spettacolo teatrale sai di essere in teatro. E quella che senti sta passando, trascende questa distanza: è una magia. L’artificialità del fumetto è sempre presente anche perché sei tu che lo prendi o lo metti già; tu vedi le vignette che verranno. E’ molto artificiale, e tuttavia, all’interno di questo contesto artificiale tu puoi creare qualcosa che sia emotivamente rilevante. Questa è la magia del fumetto.

Mazzucchelli, da “Big Man”

I.: Nel tuo lavoro sei andato verso una sempre maggiore scarnificazione: Perché?

M.: Una linea è “nuda”, con una linea sola non puoi barare. In questa particolare storia (Dead Dog, da “Rubber Blanket” n.1, n.d.r.) c’è molto lavoro. Volevo una linea frammentata. Come se le cose stesse fossero frammentate e il colore fosse il collante che le teneva insieme. Ma anche se guardi alle vecchie storie di Batman puoi constatare che si andava verso una visione sempre più semplice. Jack Kirby o Roy Crane avevano una tale semplicità, era la semplicità dell’espressione. Non c’era mai niente di superfluo.

I.: Se dovessi disegnare questa storia adesso la rifaresti nello stesso modo?.

M.: E’ difficile dirlo. Lo stile del mio disegno cambia da storia a storia. E’ il mio disegno, ma cerco di adattarlo il più possibile alla storia che racconto. Se hai abbastanza controllo del tuo stile puoi farlo. Ma se devo considerare le cose per come le vedo oggi ti direi che forse, per l’occhio, sta accadendo troppo in una sola pagina. Mi interessa una lettura più “comoda”. Ci sono neri che vibrano dal letto, dal muro, dagli oggetti.

I.: Ti ho fatto questa domanda perché mi pare che tu stia andando verso una crescente semplicità.

M.: Qui è il punto: parli di oggettività. Questo mi interessa perché in molte delle storie che ho fatto, lo stile cambia da una storia all’altra, perché hanno caratteristiche diverse. Cerco di domandarmi quale stile sia il più appropriato, ma questo stile persiste dal principio alla fine e crea una oggettività. Ma è quasi, in un certo modo, come un filtro. Il mio storytelling è il mio storytelling, ma aggiungo un filtro che è un certo stile.

I.: Sono d’accordo.

Mazzucchelli, ispirato dal disegno giapponese

M.: Una della cose che ho imparato dai manga è l’importanza della soggettività. Come “permettere” al tuo stile di esprimere la soggettività. Puoi imparare a esprimere la soggettività dei personaggi all’interno di un racconto. La voce del narratore a volte viene affiancata dalla voce del personaggio. E questo è un elemento molto interessante. Quindi quando parli di una crescente semplicità, naturalmente hai ragione, perché sto togliendo e togliendo, ma d’altra parte se trovo che qualcosa debba essere rafforzata, allora decido di usare questa “tecnica”. Mi piacerebbe arrivare a usare qualunque cosa possa aumentare la mia capacità espressiva.

I.: C’è questo primo piano che mi fa pensare. Hitchcock non lo avrebbe mai fatto.

M.: No, ma Muñoz avrebbe potuto. (ridono)

I.: Una volta ho incontrato Mougin, il fondatore e direttore di “A Suivre”. Era una persona interessante, a volte si elevava a protettore di un modo di raccontare molto francese, quasi naturalistico, in un certo senso. Io ero molto giovane e lui guardava la mia prima storia lunga: Goodbye Baobab. Disse: “Ok, è interessante”, e mi chiese “Questo cos’è?”, c’era una macchina con un tizio che guidava, un’inquadratura angolata. Per me era semplice, il tizio guidava, era preoccupato e mi sembrava appropriato un uso psicologico dell’inquadratura obliqua. Lui però disse: “Questo non va bene. Questo è americano”. (ridono) Aveva perfettamente ragione, era una cosa che avevo appreso da Mike Kaluta. Ma non capivo quale fosse il problema. Ci ponevamo l’obiettivo di raccontare. Questa era la regola di Valvoline: sei vignette per pagina. Regolari. La usavamo io, Mattotti e Carpinteri. Era un’idea per regolare la narrazione, volevamo riavvicinarci a un’idea di narrazione, a dispetto di quello che all’epoca era il pensiero dominante: una visione libera e psichedelica dell’impaginazione.

M.: Si, capisco.

I.: Guardando anche Dick Tracy o il sistema narrativo più classico del racconto a fumetti. Questo era il motto, in un certo senso: “lavoro sul linguaggio, ma narrazione”.

M.: Si.

I.: E io ero scioccato perché non credevo che usare all’interno di una scena un espediente narrativo americano potesse creare scandalo e opposizione. Per me era semplicemente una tecnica. Ma per lui era una cosa come, non so, una di quelle che ho letto più tardi di Hitchcock.

M.: Ah si, metti la “camera” nel camino: ma chi c’è nel camino? (ridono) Vedi la differenza tra fumetti e cinema? Se tu avessi filmato questa scena forse non avresti usato quell’inquadratura angolata. Perché l’automobile si sta muovendo. Ti si sta avvicinando, vedi lo sfondo che vibra. Nel fumetto invece c’è un solo disegno. Cosa abbiamo qui? Un’auto che si muove. Cosa possiamo fare per fare capire che qualcosa sta succedendo? Muover l’angolo di inquadratura.

I.: Inoltre questa angolazione aggiunge un senso psicologico alla lettura, conferisce una insicurezza.

M.: Certo.

I.: Mougin è una persona intelligente. Mi ha raccontato che una volta Tardi gli ha consegnato una storia. C’era un primo piano di una mano disegnata male e lui lo ha ripreso. Tardi gli ha risposto semplicemente che gli serviva, per esigenze di racconto, una mano in quel posto. Gli serviva lì e basta. Sai, è quel tipo di disegno, magari non bello, ma funzionale. Il fumetto, in fondo, è anche questo.

M.: Questa è la cosa principale che cerco di insegnare ai miei studenti: “Per favore disegnate bene, ma la cosa più importante non è che ogni disegno sia un capolavoro, ma che permettiate, spingiate il lettore da una vignetta all’altra”.

Mazzucchelli, sequenza da “Batman: Year One”

I.: Assolutamente. Perché se in una vignetta ci sono troppi particolari, ad esempio, si perde la fluidità, e la fluidità è importantissima per suscitare le emozioni.

M.: Una volta che lo sai puoi servirtene. Se vuoi che il lettore si soffermi su una data immagine, che rallenti il ritmo, puoi usare questa cosa a fini narrativi.

I.: Parliamo di Discovering America, che è una storia estremamente importante nel tuo percorso. C’era una grande concentrazione. Racconti la storia di persone qualunque, che si incontrano e cominciano a fare piccoli rituali di comunicazione.

M.: Il ritmo è storytelling. Siamo scrittori di prosa esattamente come i romanzieri. Loro ti parlerebbero di come controllare il ritmo della scrittura. Noi stiamo scrivendo delle storie, ma utilizziamo un media visivo.

I.: C’era inoltre quella idea della sovrapposizione di due colori che determinava le masse più scure. In pratica, in questa storia non hai usato il nero. Per cui anche la scelta grafica diventava “narrazione”.

M.: Assolutamente. Quando ho cominciato la stesura avevo già in mente quale tecnica avrei utilizzato.

I.: Ho visto una mostra molto bella di Hokusay ce considero sotto un certo punto di vista un anticipatore del linguaggio del fumetto. A parte i suoi manga che sono vere e proprie sequenze. Ci sono delle bicromie magnifiche che fece quando arrivò l’indigo, quel blu profondo che sconvolse gli artisti in Giappone.

M.: Si, usava la tecnica della stampa, la usava in maniera assolutamente inventiva.

I.: Torniamo ai manga, mi incuriosisce questo tuo grande interesse per un linguaggio così diverso dal nostro.

M.: Ho cominciato a fare qualche piccolo esperimento semplicemente perché Pierre Alain Szigeti, che lavorava per la Kodansha, mi aveva spaventato con tutte le cose che raccontava. Quello che i giapponesi non avrebbero accettato del mio lavoro e cosa li avrebbe interessati. Lui aveva appena visto “Rubber Blanet”, non conosceva quello che facevo prima, ignorava perfino che avessi disegnato Batman. Mi chiese una storia. “Non puoi fare troppi dialoghi e i personaggi devono essere così e la fine dovrebbe essere così”. Io dissi: “Senti, non userò neppure i dialoghi”. Per me è stato solo un esercizio di scrittura con il linguaggio del fumetto. Ho cercato di realizzare una storia che potesse interessare il pubblico giapponese, ecco tutto.

I.: E’ stato allora che hai approfondito la conoscenza dei manga? Cosa conoscevi di quel mondo prima di arrivare in Giappone nel 1995?

M.: Prima conoscevo “Morning”. E prima ancora, circa dieci anni fa, mio fratello di ritorno da un suo viaggio mi aveva portato un manga. Era “Jump”. Quindi avevo una vaga idea di cosa fosse il manga. Ma non ero davvero interessato al Giappone prima di quel periodo. Guardavo i film giapponesi. Kurosawa, Ozu. Il teatro Nò, le stampe giapponesi e avevo letto qualche romanzo.

I.: Hai mai parlato con Frank Miller del Giappone? Credo che lui fosse interessato a certi manga.

M.: No. Il suo interesse per il Giappone credo fosse legato molto all’idea fisica, al mito del Samurai. Il mio era un interesse culturale, io passavo per gli ukyo-e (le stampe giapponesi, n.d.r.).

Mazzucchelli, da una storia per l’antologia “Little Lit”

I.: Dunque tu venivi da un mercato tra i più grandi del mondo, e lo stavi rifiutando, quando improvvisamente vieni attratto da un altro enorme mercato, quello giapponese, che ha regole precisissime. Molte limitazioni.

M.: Esatto.

I.: Così tu trovi il modo di lavorare con la tua visione.

M.: Si, queste regole che, come dici tu, sono rigide e difficili da forzare, vengono da un posto diverso, da una cultura differente. Se prendi Batman per esempio, tu non lo puoi cambiare. Non lo puoi fare morire. Deve rimanere immutabile. In Giappone le cose sono diverse.

I.: E’ vero. Per esempio in Giappone Sailor Moon sta terminando il suo corso. Una cosa del genere è molto rara in America. Batman dura da oltre cinquant’anni. E’ eterno.

M.: Arrivai in Giappone guardando a tutte le possibilità che il linguaggio poteva offrire. C’era un’altra cultura al lavoro e io trovavo incontri e discorsi molto stimolanti.

I.: Credo che il tuo lavoro sia ancora in evoluzione e si stia nutrendo di stimoli molto eterogenei.

M.: Ci sono molti tipi di manga. Quelli che ti ho mostrato sarebbero considerati underground se paragonati a quelli pubblicati da “Mornign”. Ho visto dei manga che usavano la tecnica della dissolvenza, sai la dissolvenza tra una scena e un’altra. Per me è interessante vedere una cosa simile. La dissolvenza è una peculiarità del cinema. Non capisco l’utilità di una cosa simile.

I.: La scansione del tempo è diversa in oriente.

M.: Già. Nel manga il senso dei passaggi narrativi è molto differente da quello occidentale. Per me è molto affascinante carpire questo senso del racconto, questo ritmo che talvolta sembra rallentare, soprattutto quando ti sei formato su un concetto di storytelling come quello di Harvey Kurtzman pieno di ritmi sincopati, in una pagina: bum, bum, bum. Penso che vedere come una stessa storia potrebbe essere affrontata con queste due concezioni sarebbe davvero interessante.

Tsuge, una pagina dalla storia “Marsh” 

I.: In autori come Tsuge ci sono cose che mi sorprendono molto.

M.: Una cosa che mi interessa nei manga underground è l’invenzione, il senso di gioco e le soluzioni visive che gli artisti sono capaci di rendere. Personaggi, forme, spazi e situazioni; sono molto diversi da come li tratterei io, e non capisco da dove provengano. Anche tu hai sviluppato questo tipo di ricerca nel tuo lavoro, dalla Russia, al Giappone stesso, all’India. Aspetti visivi e stimoli visivi che vengono da altre culture.

I.: Imparare dagli altri è positivo. C’è per esempio quella storia di Tsuge che è stata pubblicata in “Raw”, lì ho trovato immagini usate come punteggiatura. Ci sono immagini che hanno funzione di commento. Servono a chiudere una determinata sequenza. Tsuge disegna dei personaggi che dicono: “Quello è un tipo davvero forte” e poi si vede lui che mostra i muscoli. E’ un momento che funziona da straniamento. Esci fuori dal racconto, ridi della situazione stessa, è un punto.

M.: Diventa una specie di graphic design. Se pensi al fumetto, in fondo cos’è se non graphic design? Hai informazioni visive e informazioni verbali. E tu le organizzi in una pagina per renderle comprensibili: questo è Fumetto! Questo tipo di punteggiatura non ha uno scopo lineare narrativo, ma contiene una informazione grafica. Quasi didattica. C’erano cose del genere ne l’Uomo Ragno di Steve Ditko. L’Uomo Ragno sta volando e improvvisamente si accorge che ha esaurito la ragnatela. Non ha un senso narrativo preciso, non serve alla storia. Ci sono quattro vignette dell’Uomo Ragno che mostrano il personaggio che riempie il serbatoio di ragnatela legato al polso. Si rimette il guanto e così via. Molto didattico. Sarebbe, nella realtà, un marchingegno impossibile; ma è reso credibile da questi particolari.

I.: Questo rende il sogno reale.

M.: Esattamente. Questa punteggiatura di cui parli si lega anche a un altro aspetto, la soggettività nel manga. Tu mi parli di qualcosa e improvvisamente questo qualcosa appare nella mia testa. Loro lo disegnano nella pagina. E’ interessante. Questo è ciò che richiedo ai miei studenti: chiarezza. Raccontare con chiarezza. Mostrare qualcosa che sia chiaro. Naturalmente puoi giocare con il mistero ma non ci deve essere confusione. La cosa interessante è quello strano meccanismo per cui se metti due o tre vignette, una di fianco all’altra, il cervello vuole trovare un senso. Kirby, Eisner, Kurtzman, questa è la tradizione che conosco. E’ molto americana. Devo andare dal punto A al punto D e tu mi vedrai procedere dal punto A al punto D. Ecco. La mia informazione nel fare i fumetti viene da questa concezione. Quello che davvero mi interessa nei manga underground è il mistero. E’ il senso di progressione non lineare del racconto. C’è qualcosa di irrazionale.

I.: Sai che Ozu usava mettere delle inquadrature che non avevano un vero e proprio scopo narrativo, ma fungevano da intervallo. Delle piccole pause qua e là per far respirare il racconto.

M.: Bello.

I.: Dilatano il racconto, ne modificano la lettura. Un po’ come fece Brian Eno con l’introduzione della musica per ambienti. Music For Airport, Music For Films. Non era più rock’n’roll. Potevi ascoltarla in sottofondo, come la filodiffusione, era una musica discreta. Questa cosa è stata molto importante per il mio lavoro. Uno dei punti del fascino del linguaggio manga, per me, è costituito dall’osservare autori complessi, come Tsuge, oppure pop, come le Clamps, che stanno creando un diverso approccio allo storytelling. Costruendo un nuovo linguaggio.

M.: C’è una grande ricchezza, è un altro mondo. E’ interessante anche perché è diverso.

Mazzucchelli, due pagine da “Città di vetro” 

I.: Volevo parlare di humour. Ci sono delle piccole storie di taglio quasi umoristico che hai fatto per “Rubber Blanket”. Ho pensato che nascevano con lo scopo di diversificare, di creare un diverso ritmo nella lettura della tua rivista. Sono nate per questo motivo?

M.: Per me era quasi un laboratorio sui fumetti, per cercare di capire. Mi interessava il fumetto nel suo insieme da quello dei quotidiani a quello più lungo e via dicendo… Sono storie buffe, assurde, a volte sperimentali.

I.: Hai inventato questi piccoli personaggi da strip e poi li hai utilizzati anche per storie decisamente più drammatiche. C’è Cool Air che mi sembra una storia particolarmente interessante; usi diversi registri, quello ironico, quello umoristico e quello drammatico. Mi interessa particolarmente l’uso di queste vignette.

M.: Si, compaiono disegni e vignette più simboliche o astratte. Ci sono disegni che sembrano quasi dei diagrammi. E’ una cosa che cerco di insegnare. Ci sono studenti che usano disegni in maniera così naturale, e altri che non lo farebbero mai… è una questione di approccio.

I.: L’uso del disegno “illustrativo” mi annoia. Non sono troppo interessato a chi mostra le cose solamente per l’aspetto esteriore e fisico. Un uomo aspetta e tu vedi l’uomo che aspetta in un ambiente, non, per esempio, un orologio gigantesco che incombe su di lui, che farebbe pensare al tempo che passa, a una visione più psicologica e meno naturalistica.

Igort, pagina da “Goodbye Baobab”

M.: Esattamente. Giusto. Da questo punto di vista trovo che il lavoro che hai fatto in Goodbye Baobab sia piuttosto interessante. Quando l’hai disegnato?

I.: Nel 1981. Era l’anno prima che cominciasse l’esperienza di Valvoline. Parlando di questo genere di soluzioni narrative penso che il mezzo offra enormi possibilità. Questo genere di soluzioni non è ancora molto sfruttato. Tu lo hai fatto qui, in alcune storie brevi di “Rubber Blanket”, per esempio e in Città di vetro.

M.: Cool Air è stata realizzata prima di Città di Vetro e io stavo lavorando in quella direzione. Ma molte soluzioni di Città di Vetro erano state pensate da Paul Karasik. A lui vengono più naturali che a me. Credo che quando abbiamo cominciato a lavorare in quel senso anche io ho portato nel mio lavoro questo genere di soluzioni. E nelle storie successive ho cominciato a utilizzarle sempre più.

I.: Le hai sviluppate anche in seguito.

M.: C’è un momento nella storia pubblicata per Drawn & Quarterly dove il personaggio sale le scale, e sta pensando a una donna che è morta, e mentre guarda alla sua porta la vede. E’, un disegno punteggiato, anche il suo balloon è punteggiato. E’ una cosa tangibile nel disegno. Ecco, se ci penso, forse non lo avrei fatto prima di Città di Vetro. Allora ragionavo in un modo più cinematografico, oggettivo. Dopo ho cominciato a riflettere molto sulla struttura del linguaggio del fumetto. E, cosa buffa, forse quando avevo dieci anni avrei potuto farlo. Ho riscoperto una cosa che avrei potuto disegnare naturalmente quando facevo fumetti da bambino.

I.: Sto per pubblicare Sinatra, il mio nuovo libro. In questo tipo di fumetto sto inserendo delle visioni che si sovrappongono a ciò che accade. Cerco di non interrompere la narrazione ma di creare una interazione tra questo aspetto reale e quello onirico. In questa storia ci sono attese e ricordi. Dilatazioni e frammenti. L’intera struttura è tesa a inventare una specie di thriller impressionista. Sto cercando di aprire la struttura narrativa con l’aiuto di queste visioni.

Igort, sequenza da “5 è il numero perfetto”

M.: Come in 5 è il numero perfetto?

I.: Si, uno sviluppo di quelle cose. Non è facile ma penso: “In fondo questo è realismo”. La nostra vita è fatta di squarci, di visioni… penso che il nostro lavoro abbia dei punti in comune. Stiamo scavando nella stessa direzione, all’interno delle strutture del racconto. La vita non è necessariamente logica. Se la vuoi rappresentare devi utilizzare strutture non logiche.

M.: Certo. Ci sono come delle sorprese. Sono le cose scomode che servono ad arricchire il racconto. Quelle cose astratte che io apprezzo molto nel manga. Forse è bene rassicurare il lettore mettendo degli elementi conosciuti per poi aprire.

I.: Credo che sia molto interessante nel manga questa idea che, apparentemente, ogni cosa, ogni storia, sia possibile. Guarda la visione del corpo, è molto diversa dalla nostra. Il concetto stesso di forza in Giappone non corrisponde al nostro concetto muscolare, prendi il lottatore di sumo. E’ una forza simbolica, interiorizzata. Che è vera forza in un certo senso, ma forse no, chi lo sa?

M.: Questo è quello che mi piace del manga, quando ti parlo del senso del mistero, questo è l’interrogativo: “Chi lo sa?”. Credo che sia presente in ogni buon manga, nel fumetto americano mainstream non esiste il dubbio. E’ così e basta.

I.: A proposito di queste certezze monolitiche che fanno parte della cultura americana, trovo che Chester Gould costituisca un esempio interessante. Dick Tracy era esagerato in questo senso, sino ad apparire iperbolico, quasi ironico. Questi cattivi con un aspetto lombrosiano al quadrato. Non erano semplici cattivi, erano dei mostri.

M.: Si, erano mostri.

I.: Erano delle icone.

M.: Esatto.

I.: Oggi però nessuno sta scavando in quella direzione.

Chester Gould, particolare di una striscia di “Dick Tracy”

M.: Per me quella era l’esagerazione che per anni ha determinato la definizione “come un fumetto”. Esagerato, semplificato. Questo è il bianco, questo è il nero. E nonostante questo, Chester Gould come un buon romanziere, era in grado di usare l’esagerazione per dire qualcosa che era più complesso. Perché le storie che aveva raccontato erano crudeli, terrificanti. Tanto da farmi ritenere che i quotidiani di oggi, in America, non lo pubblicherebbero.

I.: Sono gli unici fumetti che mi hanno veramente offeso. Per via di quel contrasto enorme tra uno stile naif e quella violenza esorbitante.

M.: Si, quasi carino e poi “shack”, violenza. C’è una vignetta di 5 è il numero perfetto in cui sparano in testa a un tipo…

I.: Si, esatto. E’ quello il riferimento, quel modo di vedere quasi naif. Loustal era molto divertito per il modo di mostrare la scena, molto ingenua: teatrale. Ma questo tipo di violenza può essere anche brutale. Vedi, le linee dei proiettili, questo genere di cose le ho prese dai fumetti popolari italiani. Kriminal, Diabolik, i nostri pulp.

M.: E’ uno strumento del fumetto. In America e in Inghilterra ci sono degli autori mainstream che hanno eliminato le onomatopee perché ritengono siano infantili e contribuiscano a prendere sottogamba il fumetto.

I.: Sul serio?

M.: Ci sono autori underground che lo pensano. E’ incredibile. Ma questa è una componente del linguaggio del fumetto! Se la usi in maniera appropriata puoi benissimo ottenere un effetto drammatico. Eisner insegna: fate prima di tutto i balloon. I suoni o i balloon ti disturbano solo se pensi che non facciano parte del disegno, e che non appartengano al fumetto. E’ come le persone che dicono, mi piace disegnare le figure ma non amo disegnare gli sfondi. (ridono).

I.: Credo che sia una visione, di cosa tu stai o non stai facendo, se ami il fumetto o il disegno fine a se stesso. Lo scopo è interessare, commuovere, creare un universo plausibile, credibile. Io inseguo una forma di “efficacia grafica”. Un disegno che serva, come un anello di una catena, non come la cosa principale. Fare fumetti non significa privilegiare il lato estetico ma lavorare su un insieme di elementi che procedono fianco a fianco.

M.: Sono molto d’accordo su questo punto. I Peanuts vivono perché Schultz è stato capace di creare un universo davvero credibile con semplici strumenti.

I.: E non è una cosa facile. (ridono)

M.: Per nulla. Proprio per nulla.

Mazzucchelli, “Sorry” da Nozone #3 del 1993

12 risposte a “Una conversazione fra Igort e David Mazzucchelli

  1. GRAZIE

  2. l’avevo letta un botto di tempo fa ma me l’ero dimenticata.

  3. bell’intervista a Mazzucchelli

  4. Pingback: 200 post | Conversazioni sul Fumetto

  5. grazie, bellissima intervista. Ho scoperto Mazzucchelli, sia del mainstream che dell’ “indipendente”, solo recentemente

  6. L’ignoranza di Igort è abissale.

  7. Pingback: conversazioni sul fumetto « Comix Lab Blog

  8. anche io penso che il buon vecchio Igort passi da “ignorante” quando critica Liefeld e il suo approccio al fumetto….puzza sotto al naso che non ha mai fatto del bene….

  9. e nemmeno Mazzuchelli, che adoro, fa una bella figura

  10. interessantissima intervista. non condivido alcuni passaggi, in particolare di igort. ma comunque molto molto interessante.

  11. Pingback: L’identità liquida di Paul Auster : minima&moralia