Jacovitti: sessant’anni di surrealismo a fumetti Parte 2

Benito Jacovitti

Ecco la seconda parte del primo capitolo su Jacovitti, edito da Nicola Pesce Editore, che ringrazio per averci dato la possibilità di pubblicarlo.
Il volume, Jacovitti: Sessant’anni Di Surrealismo A Fumetti, scritto da alcuni fra i più riconosciuti critici italiani (Franco Bellacci, Luca BoschiLeonardo Gori e Andrea Sani), si presenta come il saggio definitivo sull’autore. Con più di 350 pagine di ricerca storica, approfondimenti e critica, con una lunga intervista al Maestro e un’estesa bibliografia, il libro deve essere assolutamente in possesso di ogni appassionato di fumetto.
Potete acquistare l’edizione sul sito dell’editore o su ibs.

Leggi la prima parte.
Leggi la terza parte.

Dagli esordi al “Vittorioso” Parte 2

Giove Toppi, tavola “panoramica” pubblicata sul numero di ferragosto dell’anno XVII dell’Era Fascista del “420” di Nerbini (1938)

1.2. Il “Brivido” dell’esordio

1.2.1. Lo Jacovitti fiorentino

Alla fine degli anni Trenta, Firenze mantiene ancora un vago ricordo della capitale culturale che era stata nei primi anni del secolo. Passati i tempi eroici della “Voce” e dei futuristi che schiamazzavano alle Giubbe Rosse, il celebre caffè della centralissima Piazza Vittorio, il sonnolento capoluogo toscano può ancora vantare riviste letterarie di grande prestigio come “Il frontespizio” di Piero Bargellini e il battagliero “Campo di Marte” di Vasco Pratolini, l’autore di Cronache di poveriamanti. Ma si tratta di una vitalità limitata al campo letterario, fatto di riviste per pochi eletti: dietro c’è il vuoto, o quasi. Niente a che vedere, ovviamente, con il fervore dei brillanti rotocalchi milanesi, o con il popolarissimo “Marc’Aurelio” di Roma. L’unica eccezione nel campo dell’editoria popolare è la già citata Casa Editrice Nerbini, fondata nel 1897, che, fra l’altro, come si è visto, riscuote un enorme successo pubblicando i grandi comics americani. Fra le testate di Nerbini c’è anche un settimanale umoristico, il “420”, filofascista e un po’ volgare, ma abbastanza diffuso. Giove Toppi, colonna portante della casa editrice fiorentina, disegna molte copertine per questa testata, come per altre riviste consimili. Per il numero di ferragosto dell’anno XVII dell’Era Fascista (oggi dobbiamo fare un calcolo mentale per chiarire che è il 1938), il notevole cartellonista e autore di fumetti toscano (scomparso nel 1942) disegna una “panoramica” di ambiente balneare: una scena a tutta pagina, affollatissima di personaggi e piena di gag visive e verbali. Non c’è dubbio che anche Giove Toppi si affianchi ai già citati autori, italiani e americani, nell’ispirare Jacovitti nel suo rivoluzionario approccio alla composizione della tavola disegnata. Oltre a Nerbini, vivacchia a Firenze, poco prima della guerra, un sottobosco di editori minori e minimi, legati strettamente alle realtà locali, che pubblicano periodici di impronta tradizionalista e ben radicati nel tessuto sociale della città. Una rivista di questo tipo è “Il brivido”, fondato nel 1925 e sopravvissuto fino al 1951, giornale umoristico strapaesano ma con alcuni collaboratori di tutto rispetto, fra cui il grande illustratore Piero Bernardini. Dal 1927, il simpatico foglio toscano è affiancato da “Il brivido sportivo”, che (pur con lunghe interruzioni) riuscirà a superare addirittura la soglia degli anni Ottanta. Alla fine del 1939 il sedicenne Jacovitti, che non ha ancora le idee chiare sul genere di professione che intende intraprendere, riesce a farsi pubblicare alcune vignette sul “Brivido”. Le primissime, sommerse in una marea di illustrazioni più o meno dilettantistiche, dimostrano decisamente la loro immaturità, e passano probabilmente inosservate. È difficile, ma non impossibile – sfogliando quella che molto probabilmente è l’unica collezione esistente al mondo del giornale – trovare i germi dello Jacovitti di qualche anno dopo. Comunque colpisce già il senso del disegno, la capacità – a sedicianni – di muovere i personaggi con naturalezza e con senso dell’umorismo. Il primo settembre 1939, il tranquillo tran tran provinciale di Firenze (come di quasi tutte le città d’Italia) ha un improvviso sussulto. Con l’invasione della Polonia, Hitler e Stalin danno il via alla più colossale carneficina di tutti i tempi, destinata a cambiare nel profondo non solo la carta geografica e il paesaggio dell’Europae del mondo, ma anche la vita quotidiana della gente comune, fin negli aspetti più intimi. Certo, nell’autunno del ’39 nessuno può minimamente intravederele proporzioni della futura catastrofe, tanto meno Jacovitti e gli altri collaboratori del “Brivido”. Anche gli sciagurati governanti romani pensano che la tempesta sia destinata a durare poco, e studiano il modo per cavarsela alla meglio. L’Italia entrerà nel conflitto solo nella tarda primavera dell’anno successivo: per il momento, nel caso di una necessaria presa di posizione, e malgrado le affermazioni contrarie della propaganda, forse la Germania non è nemmeno una scelta obbligata…Per tutto l’inverno, e fino al maggio del ’40, sul fronte occidentale la guerra incorre in una singolare impasse: le prime linee francesi e tedesche, arroccate sulle rispettive linee Maginot e Sigfrido, si scambiano brevi scaramucce alternate a volantinaggi, saluti e scambi d’opinioni. La stampa internazionale definisce quella strana situazione “la guerra per burla” (“le drôle de guerre”, scrivono i giornali francesi): per poco tempo, agli occhi dei contemporanei, la Seconda Guerra Mondiale ha quest’aspetto ingannevole e mistificante. Al di là di ogni logica, Jacovitti spera, come molti altri, che tutto ciò preluda a una rapida e indolore conclusione del conflitto, e ne trae lo spunto per una grande “panoramica”, che appare sul n.13 del “Brivido” (31-3-1940). È una vignetta gigantesca, gremita di personaggi e di balloons, forse la più grande della carriera di Jac: sotto il titolo “Come ha visto la guerra un ragazzo sul fronte occidentale – le linee Maginot Sigfrido (l’autore di questa composizione ha diciassette anni)”, soldati di entrambe le parti contemplano margherite, si scambiano visite di cortesia e coltivano vezzose aiuole fra le opposte trincee. L’idea della vignetta di grandissimo formato, affollata da una congerie di personaggi occupati in mille gag, gli è forse venuta dopo aver visto una analoga illustrazione di Albert Dubout, En l’an 40. Ma questo non ha, in fondo, molta importanza: da questo momento, le “panoramiche” diventano un marchio di fabbrica di Jacovitti, e attraverseranno indenni non solo la guerra (presto rivelatasi ben diversa dal drôle de guerre del ’39), ma tutte le “fasi” creative di Jacovitti: quella cattolica, quella “laica” del “Giorno dei Ragazzi” e quella erotico-satirica degli ultimi anni. Ovvero, una panoramica per tutte le stagioni.

La grande “panoramica”di Jacovitti, apparsasul n.13 del “Brivido”(31-3-1940)

1.2.2. “Il Vittorioso”

Fin dal suo esordio, nel 1908, il “Corriere dei Piccoli” è espressione del ceto dirigente borghese pre-fascista. Quasi tutti i collaboratori del giornale, disegnatori o letterati, si uniformano volentieri a tale impostazione, facendo propri i principi etici e sociali dei bravi, sani e autoritari padri di famiglia dell’“Italietta”. Volente o nolente, dopo il 1924, il “Corriere dei Piccoli” cade, come tutte le pubblicazioni italiane, nella palude del conformismo fascista. Ma, a differenza di altri giornali, la sua adesione al regime sarà sempre tiepida, tanto che il partito si preoccupa assai per tempo – con “Il Balilla” – di fornire alla gioventù italiana un foglio più in linea con i temi della propaganda littoria. Il Fascismo non è comunque il solo, in Italia, a considerare il “Corrierino” come un pericoloso antagonista. A causa della sua rigorosa laicità, anche la Chiesa cattolica segue il settimanale di via Solferino con una certa preoccupazione, pur senza sentire il bisogno di scatenare una controffensiva confessionale nel mondo dell’editoria periodica per ragazzi. Ma nel 1934-’36, con l’enorme successo de “L’Avventuroso” e dei giornali congeneri, si apre l’era dei periodici ad ampio target (come si direbbe oggi), diretti ai ragazzi ma letti anche dai bambini e da qualche adulto. I temi, i dialoghi, e soprattutto le immagini de “L’Avventuroso” (pensiamo alle “donnine” di Alex Raymond…) impensieriscono seriamente gli educatori cattolici. E quando, poi, nel giro di un anno o due, quasi tutti gli altri periodici a fumetti – “Topolino” compreso – prendono a imitare la formula dello splendido giornalone fiorentino, le alte sfere ecclesiastiche decidono di correre con urgenza ai ripari. Il 28 giugno 1936, il Consiglio Superiore dell’Azione Cattolica, presieduto dal professor Luigi Gedda, delibera la “pubblicazione di un settimanale per ragazzi, intitolato ‘Il Vittorioso’”. È stato promotore dell’iniziativa Don Francesco Regretti, un intelligente sacerdote di larghe vedute e con un passato di antifascista militante: primo direttore responsabile del giornale, se ne allontanerà nella primavera del1939, sembra – appunto – per ragioni politiche. Antonio Cadoni, storico del fumetto ed ex “pilota” del “Vitt”, ha raccontato tutti gli interessanti retroscena di quegli anni lontani in varie riviste specializzate, fra cui il “Notiziario” dell’“Associazione Nazionale Amici del Vittorioso” (n.2 e segg., 1989): rimandiamo quindi ai suoi articoli per un’analisi approfondita dell’argomento. Nonostante che, negli anni precedenti, la G.I.A.C. (Gioventù Italiana Azione Cattolica) sia stata aspramente osteggiata – come una concorrente temibile – dalla fascista G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio), nel clima un po’ più tollerante dei tardi anni Trenta i suoi mezzi restano comunque potenti. Già per il Natale di quell’anno, con in copertina la data del 9 gennaio 1937, dopo un intenso battage pubblicitario (soprattutto su “L’aspirante”, un diffuso foglio confessionale), il nuovo giornale appare in tutte le edicole italiane, con una diffusione capillare quanto quella dei settimanali di Nerbini e di Mondadori. Ai giornali fiorentini, in particolare, il Vitt si contrappone ideologicamente in modo netto: “L’uscita del ‘Vittorioso’ – asserisce nel 1959, con scarso rispetto per la verità storica, “Ragazzi Aspiranti” (un altro giornale cattolico) – procura la sparizione dalle edicole de ‘L’Avventuroso’, giornale disonesto” (il corsivo è nostro). Il leggendario settimanale fiorentino, defunto in pratica da vent’anni, suscita ancora l’odio dei suoi nemici! Il primo “Vittorioso” ha otto pagine di grande formato, metà a colori e metà in bianco e nero, con larga prevalenza di fumetti. Malgrado l’inadeguatezza iniziale di una parte dei disegnatori, la formula è indovinata, e in parte anche originale. Ai “cineromanzi” avventurosi, infatti, che intendono proporre vicende simili a quelle dei giornali nerbiniani, ma con contenuti morali edificanti, si affiancano storie umoristiche di pregevole fattura, opera del dimenticato ma bravissimo Sebastiano Craveri. Dopo il 1938, forse per farsi perdonare dal regime l’iniziativa, che peraltro appare oggi in sospetta concomitanza con il violento attacco sferrato dal Ministero della Cultura Popolare ai fumetti d’importazione americana, la redazione del “Vittorioso” prende a insistere oltre il dovuto coi toni fascisti e guerrafondai, ospitando alcune storie in cui i valori cristiani fondamentali quali la carità e la fratellanza sono spesso latitanti, a vantaggio di accesi toni mussoliniani. Allo stesso tempo, comunque, il livello artistico delle storie del “Vittorioso” cresce notevolmente, soprattutto quando si affiancano a Craveri veri Maestri quali Kurt Caesar (con il suo fascistissimo Romano il legionario) e il mite Franco Caprioli (col ciclo di Gino e Piero). Nel 1940, Benito Jacovitti ha solo diciassette anni, e malgrado la sua prolificità sia già proverbiale nel ristretto ambiente fiorentino (le sue “panoramiche”, i suoi pupazzi e tanti altri disegni circolano ampiamente nelle parrocchie, nelle scuole e negli oratori), probabilmente non pensa affatto di farsi strada nel mondo della Grande Editoria. Forse considera la collaborazione al “Brivido” come una specie di divertimento, e malgrado l’atmosfera generale si faccia sempre più cupa (il dieci giugno l’Italia entra in guerra, malauguratamente a fianco della Germania), passa ancora volentieri il suo tempo libero giocando a pallone in un oratorio fiorentino. Proprio durante una partita di calcio, viene a parlargli il professor Bartolo Paschetta, dirigente dell’Azione Cattolica, che gli offre la grande occasione della sua vita. Jacovitti non se la lascia scappare, e accetta su due piedi di scrivere e di disegnare una lunga storia per “Il Vittorioso”. Per un ragazzo alle prime armi, è un salto di qualità strepitoso.

“Romano il legionario” di Kurt Caesar (1940)

1.2.3. I vittoriosi “3P”

Sull’onda emotiva del conflitto appena iniziato, e in linea con le tendenze del “Vittorioso”, per il suo esordio nel campo del fumetto vero e proprio, Jacovitti elabora un ingenuo soggetto di propaganda. E fin dall’inizio crea ben quattro personaggi originali: Pippo, Pertica, Palla e il cane Tom. I tre ragazzini, in bilico fra l’infanzia e l’adolescenza, rappresentano una variante senza dubbio più scanzonata e simpatica dell’ “ideale” gioventù italica rappresentata nei “cineromanzi” del Vittorioso. Per caratterizzare il loro aspetto fisico, Jacovitti mischia abilmente – e forse in modo non del tutto consapevole – un’ampia serie di modelli. Pippo e Pertica sono tutto sommato una variante “umana” dei tipi rappresentati autorevolmente da Topolino e Pippo (ma con lontane ascendenze di Mutt and Jeff, capostipiti fumettistici della coppia comica alto/basso), che in Italia ha già prodotto il duo Cucciolo e Beppe. La faccenda è godibilmente complicata dalla presenza di Palla, che può suggerire una sorta di innesto “spurio”, nel gruppo, di un’altra tipica coppia umoristica, quella Stan Laurel-Oliver Hardy (magro/grasso): in questo modo, il povero allampanato Pertica è costretto al doppio ruolo di Stanlio-Pippo, con tutti gli imprevedibili sviluppi connessi alla situazione. Altri referenti del terzetto di Jacovitti, tutto sommato più probabili, vanno ricercati in una breve ma fortunata serie italiana, quella de La compagnia dei Sette, sceneggiata da Federico Pedrocchi: tre episodi in tutto, il primo dei quali appare nel 1938 e l’ultimo ben dieci anni dopo, superando fortunosamente la guerra. I “Sette”, proprio come i “3P” di Jacovitti, sono i tipici bravi ragazzi italiani dell’anteguerra, simpatici e un po’ straccioni, che con le loro ingenue avventure nella periferia di Milano (disegnate, salvo l’ultimo episodio, da Walter Molino), anticipano un tipo di fumetto caratteristico dell’immediato dopoguerra. Un altro possibile referente, per le atmosfere strapaesane (meglio sarebbe definirle “stracittadine”) è un fumetto ancora di Walter Molino, Saltapasto e Gonfiaspugna, apparso nel 1938 su “L’Intrepido”, settimanale fondatore di una tuttora poco esplorata scuola dell’italico “fumetto plebeo” (detto senza la minima mancanza di rispetto in merito da parte degli autori). La storia di Molino, in modo meno colto rispetto alla Compagnia dei Sette, si mette dal punto di vista “basso” dei ragazzini italiani, quella generazione anni Trenta, coetanea di Jacovitti, destinata a vivere l’orrore dei bombardamenti e del passaggio del fronte nel modo più doloroso e indifeso. Proprio la testimonianza di questa innocenza tradita, in modo niente affatto paradossale, ci offre oggi il profumo di un mondo candido e perduto, un pre-neorealismo senza miseria nera, senza violenza e sopraffazione ma con un’aria irresistibile di verità. In Pippo e gli inglesi, la prima storia di Jacovitti per il “Vittorioso” e forse – come vedremo più avanti – la prima in assoluto del grande autore termolese, i pur simpatici personaggi, che avrebbero affrontato per tutti gli anni Cinquanta una serie di indimenticabili avventure, non hanno ancora una psicologia ben definita, e anche i contenuti evidenziano parecchie incertezze ed esitazioni. Gli stessi temi di propaganda bellica sono affrontati (fortunatamente) con scarsa convinzione: l’adolescente Jacovitti si industria nel riciclare qualche tipico luogo comune sugli inglesi, che i mass media un po’ cialtroneschi di allora (fra cui spicca la radio, regno del famigerato commentatore Appelius, quello del “Dio stramaledica gli inglesi!”) cercano di elevare al rango di argomenti politici. Classico il motivo degli inglesi ingordi, trasposizione in chiave alimentare della loro insaziabilità imperialistica. Il “popolo dei cinque pasti al giorno” viene rappresentato nella macchietta di un signore sofferente di gotta (malattia da abuso alimentare), che abita in un tipico villino britannico. Le anziane signore inglesi, tutte dedite ad accudire in modo maniacale i loro cagnolini, sono rappresentate a loro volta da un’energica nonnetta, che sembra la diretta progenitrice della signora Carlomagno. Jacovitti, ovviamente, non prende sul serio questi luoghi comuni da quattro soldi, anche se le sue gag, pur non avendo davvero nulla di satirico e tanto meno di politico, sono già abbastanza godibili. Certo, le primissime storie di Jacovitti sono valide soprattutto se messe a confronto con gli altri fumetti del “Vittorioso”: ma la Londra di Pippo e gli inglesi è in realtà la periferia di Firenze (o di Bologna, o di Roma), e i muri sono gli stessi (ovviamente con l’intonaco scrostato) degli angoli delle strade in cui il giovanissimo autore giocava a pallone. Per il resto, sorprende che Jacovitti, dopo poco più di un anno trascorso al “Brivido”, disegnando singole vignette, sia già capace di usare con tanta padronanza le convenzioni del fumetto, sebbene il disegno sia ancora alquanto sommario e acerbo. Quel che conta, infatti, è la struttura del racconto. Pippo e gli inglesi è un fumetto in piena regola: non sembri questa un’ovvietà, perché ben poche opere italiane di narrativa disegnata, in questi anni, rispettano in pieno le convenzioni e sfruttano le opportunità offerte dalla nuova forma d’arte. Le primissime storie di Jacovitti ci sono tramandate mediante le ristampe degli anni di guerra. Come vedremo, le vessatorie proibizioni del Minculpop, dopo il 1941, minano al cuore illinguaggio del Fumetto, proibendo prima l’uso delle “nuvolette” (i balloons) e poi anche la riquadratura delle vignette. Pippo e gli inglesi, ridotto nelle ristampe a una serie di tavole mute con didascalie, perde più della metà del suo fascino e della sua verve. Nella versione originale, invece, mai riproposta fino ad un recente volume edito da Stampa Alternativa, la storia è dotata di un ritmo straordinario e di una comunicativa, che non risentono affatto di tutto il tempo trascorso. E questo vale anche per gli episodi immediatamente successivi. I temi “politici” sono presenti anche nella seconda storia del terzetto, Pippo e il mistero dei “Lupino” : certe caratterizzazioni, come quella di un commerciante ebreo, sono tratteggiate secondo i più vieti stereotipi in voga. Ma già in questo secondo episodio, con il quale Jacovitti inaugura il filone dei suoi spassosi “gialli comici”, l’orizzonte si allarga: da una Londra del tutto immaginaria si passa a una Svizzera ancora di maniera, ma con qualche primo evidente tentativo di documentazione. Invece mancano ancora, in questo come negli altri episodi immediatamente successivi, certi fondamentali “marchi di fabbrica” del nostro autore: per esempio non è possibile rintracciare, almeno fino agli ultimi mesi del ’42, le esilaranti invenzioni grafiche e verbali che in seguito giustificheranno la fama di Jacovitti. Qualche rara sequenza della storia successiva, letta con il “senno di poi”, lascia vagamente presagire qualcosa: infatti con Pippo e la boa, terzo episodio apparso sul “Vittorioso”, il ciclo di Pippo, Pertica e Palla anticipa alcuni tratti del personalissimo “realismo” jacovittesco degli anni a venire. L’azione si svolge nel paese (autentico) di Poggibonsi, trasportato per esigenze narrative sulla costa tirrenica: per la prima volta, Jacovitti ci mostra uno di quei paesaggi fra il provinciale e il rurale che gli saranno poi congeniali per tanti anni. Se è ancora presente la propaganda (l’episodio fa parte di un vero e proprio “ciclo”, quello che vede protagonista la perfida spia inglese Bob Smith), i triti luoghi comuni degli episodi precedenti finalmente scompaiono, per lasciare il posto all’umorismo puro. Alcuni personaggi della storia confermano l’emergere di tipi caratteristici dello Jacovitti maturo: appare un’altra vecchietta – la terza della serie – ancora più violenta delle precedenti, ed è ormai chiaro che, passo dopo passo, si sta per arrivare alla formidabile signora Carlomagno. Affiorano anche delle piccole invenzioni grafiche, soprattutto in certe scene d’azione che potremmo già definire demenziali. Ma Pippo si comporta a volte come il contemporaneo Topolino, fino a ricalcare pedissequamente un’intera scena chiave della storia Il mistero di Macchia Nera (apparsa l’anno prima su “Topolino”), quella in cui il tenebroso criminale tenta di uccidere Mickey con una serie di trappole mortali. In qualche modo, le letture fumettistiche di Jacovitti rifluiscono nel background delle sue avventure. E del resto l’esame di un’avventura che fino a poco tempo fa si considerava perduta sembra proprio rafforzare questa ipotesi.

“Pippo e gli inglesi” (1940)

1.2.4. Il mistero delle Cinque Giornate

L’unica collaborazione extra-”Vittorioso” di Benito Jacovitti, sempre nel periodo 1940-’41 e limitatamente al fumetto vero e proprio, è quella con la Tauriniadi Torino. La piccola casa editrice piemontese, oggi scomparsa, all’epoca ha in catalogo una collana di pubblicazioni economiche, gli “Albi Viaggi e Avventure”: nonostante il titolo altisonante, sono fascicoletti assai poveri, di poche pagine, con storielle di varia provenienza che non possono certo reggere il confronto con i capolavori a fumetti che la grande editoria sta ancora pubblicando, nonostante gli ostracismi di regime. Però anche queste modeste avventure, seguendo la voga del tempo, pretendono di essere “eroiche”, per forma e contenuti. In appendice agli albi suddetti (di solito nell’ultima di copertina), appare per un certo periodo una serie di tavole autoconclusive di Jacovitti, fra cui alcune primitive “panoramiche”. Poi, nel 1941, comincia ad essere pubblicata un’intera storia a puntate, dal titolo Caccia Grossa, una godibile vicenda eroicomica ambientata nell’Africa Nera. Ma rimane un dubbio, riguardo alla collaborazione con la Taurinia, che contribuisce ad ammantare di un certo mistero gli esordi fumettistici delgrande Jac. Esiste infatti traccia di un fantomatico albo della serie, dal titolo L’eroe delle Cinque Giornate, che Jacovitti avrebbe interamente disegnato, e che sarebbe apparso in edicola prima di qualsiasi altra sua storia a fumetti. Questo episodio, e non Pippo e gli inglesi, sarebbe quindi l’autentica “opera prima” del grande termolese, e insieme l’unica storia naturalistica, cioè “seria”, disegnata dall’autore in più di cinquant’anni di carriera. Lo stesso Jacovitti avalla l’ipotesi, ma la cosa lascia comunque perplessi: si dice che dell’albo esistano solo uno o due esemplari, conservati gelosamente da fortunati collezionisti. Ma è un fatto che nessuno sia stato ancora in grado di esibirne una copia. Caccia Grossa, una storia di ventinove tavole che fino agli anni Ottanta veniva data perperduta, è invece una precisa realtà: una ristampa integrale è apparsa nel 1986, sul n. 38 della rivista specializzata “Exploit Comics”. Il protagonista dell’avventura (che non è più ricomparso nelle storie successive di Jacovitti) è il simpatico Patacca, un tipico morto di fame all’antica maniera italica, che incappa in una lunga serie di guai cercando di racimolare qualcosa da mettere nello stomaco, perennemente vuoto. Le vicissitudini di questo personaggio rappresentano indubbiamente un regresso, rispetto all’umorismo del ciclo di Pippo: anche in quegli episodi c’è il gusto per gli inseguimenti farseschi, per le fughe rocambolesche, per i “tiri mancini”, ma si tratta di una farsa abbastanza evoluta, in cui, per lo meno, non è la “miseria costituzionale” a motivare le azioni dei protagonisti. In Caccia Grossa, invece, si torna nettamente indietro: per fare un parallelo cinematografico (ma la “commedia all’italiana” deve ancora muovere i primi passi significativi), dal surreale Macario si passa al primo Totò, eroe primigenio dell’“umorismo alimentare”. Però resta il fatto che Jacovitti, senza i condizionamenti del“Vittorioso”, riesce a liberarsi dei temi di propaganda (e quindi di tutta una zavorra di cliché) e anche di molte pesanti inibizioni “morali”. Patacca, nella sua sconclusionata vicenda africana, incontra dei personaggi irresistibili, spesso cinici e violenti, a mezza strada tra i “buoni” e i “cattivi”. Antieroe amabilmente vigliacco ma capace di slanci generosi, rappresenta egregiamente una delle principali caratteristiche di Jacovitti, e cioè la sua assoluta mancanza di retorica. Che elementi del genere siano presenti già nel 1941, quando anche il pubblico dei giornalini è assordato dalle fanfare mussoliniane e dalle cortine fumogene del suo gerarca-scenografo Starace, è particolarmente significativo. In qualche modo, ci conferma l’impressione (anche perquanto riguarda il periodo prebellico) che Jacovitti non sia intimamente coinvolto nel Fascismo e nella sua ideologia mistificatrice. Nella parte finale di Caccia Grossa c’è anche una tavola che ci offre qualche ulteriore indizio sui possibili influssi subiti da Jacovitti per quanto riguarda l’uso dello “specifico dei fumetti”. La sequenza in esame ricalca alcuni passaggi di un altro classico del Mickey Mouse di Gottfredson, pubblicato sul “Topolino” giornale nel 1938: ci riferiamo a Topolino e il gorilla Spettro, che si conclude in un’epica battaglia tra cannibali e gorilla. Ebbene, Jacovitti ripropone più o meno la stessa scena: è una conferma che la lettura delle stimolanti storie di Topolino ha lasciato il segno sul giovane autore, sostanzialmente originale ma disposto talvolta a ispirarsi, nella costruzione di uno stile narrativo, al migliore esempio esistente di fumetto umoristico-avventuroso. E così, con una serie di influssi più o meno consci e riconoscibili – Segar, Faccini, Dubout, Disney – va formandosi, negli anni più bui della storia d’Italia, un fenomeno fumettistico forse unico nel nostro paese: quello di un autore destinato a sviluppare un universo immaginario così ricco (dopo pochi anni di incertezze e di rodaggio), da rompere ogni rapporto di dipendenza con il restante mondo dei fumetti, in virtù di uno stile divenuto ben presto autonomo e personale.

Fine seconda parte.
Leggi la prima parte.
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“Caccia Grossa” (1941)

7 risposte a “Jacovitti: sessant’anni di surrealismo a fumetti Parte 2

  1. Molte grazie, Conversazioni!
    La prima tiratura del libro è andata esaurita, quindi siamo già… alla ristampa, per la Fiera del Libro di Torino, dove lo presenteremo di nuovo!
    A presto!

    Luca

  2. Grazie a te Luca!
    La settimana prossima sarà on-line l’ultima parte.

    A presto,

    Andrea.

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