Come le strisce che lasciano gli aerei. Intervista a Vasco Brondi e Andrea Bruno.

Si respira precarietà e ansia nel lavoro da poco dato alle stampe dalla Coconino Press/Fandango, firmato da un esordiente d’eccezione come Vasco Brondi e da un fumettista dal tratto impegnativo e complesso, che risponde al nome di Andrea Bruno. I due si erano incontrati all’epoca dell’uscita del secondo lavoro di Brondi, Per ora la chiameremo felicità. Già dal titolo, il disco trasudava un senso di velata incompiutezza, di frammentarietà, non certo formale, quanto esistenziale. Le immagini e le metafore intrecciate del delineare il profilo di una gioventù su cui grava il peso di un catastrofe temuta e amata. Come le strisce che lasciano gli aerei è un frammento germinato, molto probabilmente, da queste semplici e terribili premesse. Ne abbiamo parlato con gli autori.

Atto I, Vasco Brondi: le parole…

Preferirei porti la prima domanda partendo dalla conclusione dell’opera. Nella post-fazione “Strani eroi” citi apertamente alcune fonti letterarie: il Kerouac de I Sotterranei, il Bassani de Il giardino dei Finzi-Contini. Quali sono, invece, e se si sono, le fonti fumettistiche del tuo lavoro?

È vero, non avevo neanche pensato di avere citato solo fonti esterne al fumetto, sarà che li vedo come dei film, mi sembra che riescano a contenere tutto. E’ strano perché non riesco a distinguere bene dentro questa storia i fumetti per me importanti, ce ne sono moltissimi che hanno lasciato una traccia indelebile dentro di me e nel mio modo di vedere le cose ma che forse non si vedono qui. Probabilmente questa storia è stata guidata soprattutto dai fumetti di Andrea, a cui già pensavo e vedevo chiaramente mentre scrivevo la sceneggiatura.

La collaborazione con Bruno risale a qualche anno fa, all’uscita di Per ora noi la chiameremo felicità. Un disco in cui si respirava un’aria di precarietà e di disillusione, di cui poi il graphic ne è diventato quasi l’emblema narrativo. Come è stato lavorare con un medium come il fumetto e con un fumettista come Andrea Bruno, dalla forte identità sia grafica che poetica?

Penso che tra me e Andrea ci fosse un’affinità di fondo, praticamente nessuno dei due ha fatto compromessi per avvicinarsi all’altro, eravamo già delle visioni vicine. In questo senso è stato relativamente facile anche se sono comunque stati due anni di lavoro. Credo che questa storia possa essere vista come la prosecuzione narrativa di Per ora noi la chiameremo felicità ma allo stesso modo come la prosecuzione narrativa di Brodo di niente o di Sabato tregua.

Maicol, Rashid e Rico per la prima volta sembrano dare un volto ai personaggi, che idealmente popolano i tuoi brani. Che differenza c’è tra il lavorare con immagini come fai con la musica, dove la storia ha un tempo molto breve di sviluppo e una forma narrativa più estesa come può essere un fumetto? E soprattutto perché il fumetto?

Da un punto di vista lavorare con il fumetto è stato come scrivere una canzone, una canzone narrativa dove invece della musica ci sono dei colori. Paradossalmente sono due forme di espressione più vicine di quello che sembra, entrambe vivono in equilibrio tra le parole e qualcos’altro. Dall’altra parte mi sono trovato davanti ai dialoghi, ad una narrazione più compiuta, ai personaggi secondari, ai panorami. Il lavoro artigianale è stato molto diverso anche perché eravamo in due e il 95% delle cose che ho scritto le ha lette solo Andrea perché erano descrizioni di quello che poi Andrea è andato a disegnare. Mi interessava che si sviluppasse per immagini, che le parole fossero ridotte ai dialoghi e in tre momenti ai pensieri dei protagonisti ma che ci fossero soprattutto silenzi e simboli, come le strisce degli aeri che sembrano messaggi in codice.

Amo i fumetti da quando ho incontrato Pazienza, da quando mi sono accorto che con una bic in una stanza puoi fare dei colossal e toccare qualsiasi cosa.

Sempre riguardo i personaggi, Micol rappresenta quasi il centro assente della vicenda. È difficile carpirne le idee, nonostante molto spesso ci si intrufoli dentro la sua testa. Rimane evanescente, così come le sue battute. Al contrario le figure maschili, sono più realistiche, ma nel contempo meno dinamiche. Sono caratteri che rispondono a delle idee precise o hai assecondato il flusso narrativo?

Micol sembra non lasciarci intravedere niente di lei, sappiamo che è successo qualcosa prima e che succederà qualcosa dopo ma la vediamo sfuggente e silenziosa. È la storia di una decisione, rappresenta il momento bellissimo, disperato e liberatorio di una decisione, una storia che avviene solo dentro di lei. Mi piaceva pensarla come un personaggio di Antonioni di quel suo neorealismo interiore, noi la seguiamo da fuori ma non capiamo quello che le succede, se non alla fine.

Il tema dell’emigrazione e della fuga si intrecciano, attestando seppur con delle ovvie differenze un medesimo atteggiamento. La tua volontà era quella di raccontare una “storia di oggi”. Credi che la nostra storia sia appunto da tutt’altra parte e che molto spesso sia o debba restare una storia incompiuta?

Per me era importante raccontare “una storia di oggi” solo nel senso di toglierla all’informazione telegiornalistica, all’attualità di cinque minuti, trasformarla in un documento sentimentale, darle una piccolissima eternità.

Progetti futuri? Ritornerai a scrivere fumetti?

Non sono un grande pianificatore, qui è sempre un cantiere aperto.

Atto II, Andrea Bruno: le cose…Allora, Andrea come è stato lavorare con Vasco, su un testo che non era tuo? In che maniera ha contribuito allo sviluppo del graphic novel?

La collaborazione con Vasco parte dal lavoro che avevo fatto un paio di anni fa per la copertina del suo secondo disco Per ora noi la chiameremo felicità, in un certo senso abbiamo dato un seguito in forma narrativa alle immagini che
corredavano il disco. Lavorare su un testo non mio è stata un’esperienza nuova e stimolante, mi sono sentito un po’ come un regista che debba trasporre in immagini un copione cinematografico. Vasco mi ha lasciato molta libertà sul piano tecnico/fumettistico, ma, complessivamente, mi sono tenuto molto fedele al testo, che d’altra parte mi aveva colpito per la sua qualità “visiva” già dalla prima lettura.

Venendo da letture come Brodo di Niente e Sabato Tregua, dove i neri spadroneggiano, i colori di Come le strisce che lasciano gli aerei sono una “sorpresa”. Che ruolo hanno nell’economia della storia?

La storia l’abbiamo subito pensata e “vista” a colori. La scelta è stata in
qualche modo dettata dal racconto, così come l’idea di limitare la tavolozza a poche tinte molto intense. Inoltre, personalmente avevo voglia di cimentarmi e impegnarmi in qualcosa che andasse in una direzione diversa da quelle percorse in passato.

Un altro elemento che mi ha colpito è l’assenza di quelle atmosfere “metafisiche” – chiamiamole così per comodità – che erano un po’ il tuo marchio di fabbrica. Così come Vasco asciuga il suo stile metaforico, tu sembri ancorarti alla realtà, tranne che in rari momenti. È dovuto ad una reciproca influenza? O c’era qualcosa nei personaggi e nella storia che ti ha condotto su questa strada?

Ho cercato di rimanere vicino al testo e di “metterlo in scena” facendo attenzione alle indicazioni che conteneva. Questo mi ha portato a fare un maggiore sforzo di osservazione della realtà rispetto al solito, perché secondo me il  racconto lo esigeva. Diciamo che, per una volta, ho guardato un po’ meno dentro al foglio da disegno e un po’ più fuori dalla finestra.

Cosa hai visto fuori da questa finestra? La ruggine  che sembra corrodere le pagine del graphic è un ritratto più che fedele della realtà bolognese e/o italiana?

Non so se sia un ritratto fedele, non era tanto quello l’obiettivo. Mi interessava piuttosto “rubare” piccoli particolari di facce, luoghi, ecc… per provare ad
ancorare un po’ le immagini (che per altri versi “fuggono” verso l’astratto/pittorico) al presente del racconto.

Un dato in continuità con i tuoi lavori è invece la precisa fisionomia dei tuoi personaggi. Mi riferisco alle orbite vuote, che mi ricordano un po’ quelle di Little Orphan Annie di Gray. Micol, Rashid e Rico sembrano delle maschere, degli archetipi. Come hai gestito la genesi grafica dei personaggi?

La caratterizzazione di volti, luoghi e personaggi, viene appunto da quel lavoro di osservazione di cui parlavo. Non sono uno che va in giro col quaderno degli schizzi o a la macchina fotografica, ma, per fare un esempio, certe facce viste nelle strade o nei bar dei quartieri periferici di Bologna sono finite dentro
il libro senza che quasi me ne accorgessi.

Per facilità potremmo immaginare un’ideale colonna sonora con le canzoni di Per ora la chiameremo facilità (una sorta di preambolo a quanto narrato nel
volume), ma qual è – se c’è stata – la tua colonna sonora? Cosa canta Micol mentre si imbarca nell’aereo che la porta lontano da Rashid e da Rico?

Non so bene come rispondere a questa domanda, perché negli ultimi anni non ascolto molta musica mentre lavoro. Ovviamente le canzoni di Vasco in un certo senso rappresenterebbero la colonna sonora ideale del racconto. Senza dimenticare il suo bellissimo pezzo strumentale che sonorizza il booktrailer del libro e che secondo me funziona benissimo con le immagini.

Per chiudere  l’intervista – anche se è prematuro – potresti parlarci dei tuoi progetti futuri? Conti nuovamente di prestare i tuoi colori per i testi  di un altro autore? 

Conto di iniziare presto un nuovo lavoro lungo, stavolta su testi miei e in bianco e nero, ma in futuro altre collaborazioni potrebbero verificarsi.

5 risposte a “Come le strisce che lasciano gli aerei. Intervista a Vasco Brondi e Andrea Bruno.

  1. Orlando (Furioso)

    Non ho letto l’intervista.
    Per una volta (e poi mai più) mi si lasci tamarreggiare. Mi scuso i anticipo. Mi hanno regalato questo volume e l’ho letto. E’ una delle robe più brutte che abbia mai letto in vita mia.
    Niente di personale.
    (Ma la prossima volta spero scelgano meglio i regali)

  2. Rispetto il tuo giudizio, so che non è mai affrettato…Non credo sia mio compito difendere l’opera. Gli autori ne hanno parlato con me, hanno risposto a delle mie curiosità. Non parliamo certo di un capolavoro, ma neanche di un’opera di disprezzare totalmente. Molto probabilmente il suo target non è il lettore smaliziato o “competente”…Fatto sta che, e mi dispiacerebbe pensare il lavoro in maniera dicotomica, che è una via totalmente sbagliato, le tavole di Bruno sono “forti”…

  3. Orlando (Furioso)

    Tanta stima per Tonio.
    E grazie per la pazienza 😉

  4. Pingback: Del Barbieri che mi ero perso | Conversazioni sul Fumetto