L’eleganza ci salverà: Hawkeye di Fraction e Aja

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Quanto deve essere divertente rilanciare un personaggio di secondo piano? A giudicare dall’Hawkeye di Fraction e Aja direi un sacco.

Prendere “il tizio normale” dei Vendicatori (nomignolo affibbiatogli in questa stessa serie) e dedicargli una serie tutta sua, praticamente slegata da tutto, ha garantito abbastanza spazio di manovra alla coppia di artisti per poter plasmare la nuova incarnazione dell’arciere attorno alla figura mitologica – tutta americana – del noto “perdente pieno di figa” (sarebbe carino un giorno fare un confronto con la sua nemesi nipponica: “il vincente che l’annusa in tutte le puntate ma non conclude mai”).

Così il nostro Burton ora è un belloccio solo apparentemente sciatto (e l’appartamento nella super gentrificata Brooklyn dice un sacco di cose a questo proposito) che si caccia, numero dopo numero, in situazioni sempre più brillantemente pericolose. Spesso e volentieri per via di qualche fanciulla mai meno che piacente.

Tutto, ca va sans dire, calato in un mondo che gronda stile da ogni inquadratura. Dalle cover fino alla costruzione delle tavole (spesso ibridate con il design o la grafica) passando per ogni singola scelta percettibile a livello artistico: nel mondo di Hawkeye non esistono auto normali, si gira solo con Mini o fichissime muscle car da museo. E provate a cercare una moto che non sia una Vespa in tinta con il casco di chi la conduce.

I criminali di quartiere vestono tutti la stessa tuta sportiva e si esprimono in uno slang tanto assurdo quanto esilarante. Come se Patrick e Alexio dei Soliti Idioti incontrassero Wes Anderson (guadagnando tremila punti, mi pare scontato).

Battute brillanti a profusione, trame leggere e briose, richiami continui al concetto di outsider (in questa serie Clint Burton finirà sempre per buscarle, però diventa ricco rubando un sacco di soldi alla mafia e si può permettere – giuro – di chiamare Tony Stark per installargli il nuovo televisore).

Se volessimo fare un paragone cinematografico penserei a Soderbergh (quando era all’apice) che gira un cinecomic cercando di imitare lo stile di Stanley Donen e Seijun Suzuki. Sarà anche un’accozzaglia di trovate fighette e sfavillanti, ma rinunciarvi sarebbe un peccato mortale. Perché se in quel mare magnum di assenza di buon gusto corrispondente al mercato dell’intrattenimento odierno  (e parlo di ogni ramo dell’intrattenimento, dai videogame – spariamo sulla croce rossa – al cinema) ogni tanto qualcuno ci ricordasse cosa significa avere un minimo di eleganza male non farebbe. A livello più profondo di quanto si pensi.

Se volessimo fare un esempio pratico potremmo dire che questa ricerca di stile ha spinto i due autori a una nuova definizione di sidekick. Che in questo caso è: a) più in gamba dell’eroe con il nome in copertina, b)una ragazza c) una ragazza che evita con gran classe tutti i cliché del caso. Quindi niente spogliarelliste dalle protesi al silicone o donne cazzute con storie pese alle spalle e vocabolario da scaricatore di porto. Semplicemente una ragazza intelligente, sagace e con una capacità mortale di scagliare frecce esattamente dove vuole lei.

Stessa cosa si nota per lo sviluppo della trama. In anni dove ormai siamo assuefatti al continuo rialzo dell’assicella del mostrabile, dove ogni seguito deve essere solo e semplicemente “di più” del capitolo precedente, fa piacere che qualcuno riesca a sfuggire a questa morsa populista. Che non significa per forza di cose puntare sul pessimismo cosmico o sullo sgradevole a tutti i costi. Essere professionisti in determinati campi significherebbe – in teoria – essere in grado di portare soluzioni che il fruitore medio – tipo che scrive – non si sarebbe mai immaginato. Senza che queste vadano esattamente nella direzione opposta a quella che ci si aspetta. Al lieto fine ci si può arrivare in mille modi. Il mestierante sceglierà i 999 noti a tutti, l’artista punterà su quell’uno di cui nessuno sospetta l’esistenza. Ma che tutti, inevitabilmente , riconosceranno come soluzione più bella, elegante e fresca.

Può quindi una cosa semplicemente bella portare a grandi risultati? A questo punto direi di sì. Cambiando nettamente di livello (non me ne vogliano Fraction e Aja) mi verrebbe da pensare a Colazione da Tiffany di Truman Capote. Considerato (da chi non l’ha letto) l’emblema di certa frivolezza, in realtà si tratta di una critica spietata alla società (e dove i buoni sono i frivoli, prendete nota). Eppure il romanzo è brillantissimo, divertente e memorabile sopratutto nei fulminei scambi di battute.

Rimanendo a galleggiare in superficie potremmo semplicemente dire che l’obbligo sociale di apparire il più sfavillanti possibili obbliga chi lavora dietro le quinte a una maggiore attenzione alla direzione artistica nel suo insieme. Il risultato è una serie godibile, divertente e con l’enorme pregio di ricordarci che intrattenimento leggero non deve per forza di cose essere di bocca buona o livellato verso certe pulsioni pre-adolescenziali. Lerciarsi con il marchio d’infamia della “fighetteria a ogni costo” (se ben direzionata) può essere più soddisfacente di quanto si pensi.

[Per sviluppare meglio questo argomento leggetevi “How to be a Man” di Glenn O’ Brien – in Italia noto per la rubrica su Vanity Fair, all’estero per essere stato stretto collaboratore di Andy Warhol oltre che potentissimo editor at large di diverse testate di culto, tra cui Interview. Se la seconda parte del volume è trascurabile, la prima metà è una geniale disamina sulla società partendo da come vengono indossate le giacche].

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Evil Monkey collabora con noi, scrive un sacco e fra le altre cose ha un blog.

2 risposte a “L’eleganza ci salverà: Hawkeye di Fraction e Aja

  1. Glenn O’Brien dovrebbe scrivere il rilancio di Razorback per le matite di Tony Salmons per affiancare l’Occhiodifalco di Fraction e Aja che è solo soletto in edicola a combattere con comics + fragorosi. Tony è stiloso quanto Aja, ma + spigoloso e meno debitore del Mazzucchelli che affiancava Miller negli anni ottanta. Glenn potrebbe lavorare sul serial di un ex radiomatore nonchè truck driver texano che arriva nella Grande Mela con modi da romanzo di Lansdale, ma finisce per vivere a Tribeca e a combattere nanotech aliena al fianco della figlia dell’Uomo Talpa che ha lasciato papà ed il suo impero sotterraneo per vivere la vita dell’artista. Nella tradizione di Vanity Fair , ogni storia inizierebbe con il tempo di lettura stimato.