Gian Burrasca, fumetto, tridimensionalità e lettering

“Il Diario di Gian Burrasca”, tratto dall’opera quasi omonima di Vamba (Il giornalino di Gian Burrasca, 1907), per i testi dell’iperproduttivo Claudio Nizzi vien pubblicato nel 1983 sulle pagine del Il Giornalino (nn. 38/47) e rappresenta diversi spunti interessanti per capire, nel suo complesso, il grande contributo apportato da De Luca al medium fumetto.

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Lasciatosi da poco alle spalle i suoi lavori più famosi e sperimentali come il cosiddetto ciclo shakespeariano (Amleto, Romeo e Giulietta e La tempesta 1974-75) e la serie de Il Commissario Spada, che si conclude nel 1982 sulle pagine dello stesso settimanale, De Luca si cimenta con uno dei più famosi classici della letteratura per l’infanzia.

Ecco, dunque, Gian Burrasca, simbolo ante litteram di ogni ribellione giovanile, così lontano, specialmente all’epoca della sua pubblicazione, dallo stereotipo allora dominante dei libri a carattere educativo e dalla forte impronta moralistica, pensati e scritti per il pubblico degli adolescenti, spesso da questi poco apprezzati, e che possono simbolicamente essere riassunti dal noto e  famigerato libro Cuore.  

Gian Burrasca, pubblicato a puntate su Il Giornalino della Domenica fra il 1907 e il 1908 e illustrato dallo stesso Vamba mette in scena, fra i primi, un sincero e credibile racconto narrato attraverso gli occhi infantili del protagonista (tramite lo stratagemma narrativo del diario [1]) il piccolo Giannino Stoppani, figlio di una famiglia della media borghesia di inizio secolo, insofferente nei confronti di ogni tipo di autorità e dedito a burle e scherzi, dalle conseguenze a volte terribili e per le quali Giannino viene inutilmente redarguito e punito, ma che hanno comunque, punizione o meno, l’effetto di rovesciare il punto di vista tutto adulto e ancora Ottocentesco sulla società, sulla famiglia e sul ruolo dei bambini all’interno di questi sistemi, più piccoli adulti che infanti con codici ed esigenze diverse.

La sfida affrontata da De Luca e Nizzi è triplice.

Da un lato, si trovano a dover attualizzare un’opera di quasi ottant’anni prima (ma per quanto era cambiata la società italiana in quel lasso di tempo potrebbero anche essere stati secoli), senza tradirla nello spirito. Ancora: i due autori si confrontano con quello che era ormai un classico della letteratura, più volte ristampato e già più volte rivisitato. Famosa la versione televisiva Rai (1964-65), per la regia di Lina Wertmuller, con una giovane Rita Pavone nel ruolo di Gian Burrasca, rimasta nella memoria, soprattutto, per la celeberrima canzone “W la pappa col pomodoro”

Per quanto riguarda nello specifico il versante grafico, De Luca si trovava anche a “sfidare” i grandi maestri che, prima di lui, avevano illustrato questo racconto. Fra tutti, il primo, lo stesso Vamba che, altro suo merito, aveva illustrato i vari episodi che sarebbero poi stati raccolti in volume, con un segno che ricordava, appunto, una mano infantile [3], per rendere ancora più mimetica l’immedesimazione con il proprio personaggio e con questo quella dei suoi giovani lettori. Inoltre, De Luca e Nizzi avrebbero dovuto trovare un modo per rendere, in maniera altrettanto efficace, la leggerezza di scrittura e il punto di vista soggettivo del protagonista dell’opera in questione.

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Una delle illustrazioni di Vamba per Gian Burrasca

La sfida può dirsi largamente vinta. Per quanto riguarda il disegno e la struttura della tavola De Luca abbandona i tratteggi, le mezzetinte, il puntinato e altre tecniche mutuate, per lo più, dall’incisione, che avevano caratterizzato, in particolare il ciclo del Commissario Spada, per adottare un segno più lineare, pulito, maggiormente volumetrico.  D’altro canto, recupera anche  l’utilizzo della gabbia che, se in parte ancora presente nello Spada, si era completamente dissolta in occasione della “pausa” della trilogia shakespeariana. Non del tutto, però, come possiamo vedere nell’ultima vignetta della tavola seguente.

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Lo sfondo, inteso come scenario teatrale, sperimentato ne l’Amleto, elemento attivo nella narrazione, non solo come elemento simbolico, espressionistico o come catalizzatore dello sguardo, ma come agente esso stesso (spesso esplicitamente, come si può vedere dal “comportamento” dell’arazzo nella scena dell’uccisione di Polonio) nel Gian Burrasca si dissolve, quasi sfuma, di fronte alla necessità di portare in primo, spesso in primissimo piano, la fisicità dei personaggi, la loro mimica. Non scompare però l’idea di restituire una continuità temporale fra le vignette, pur con l’ausilio della gabbia, che qui viene usata in senso non banale. Si guardino, ad esempio le prime cinque vignette della tavola successiva.

gb3L’occhio è portato a seguire un movimento continuativo, da destra verso sinistra, in una panoramica a scoprire che inizialmente segue il movimento di Giannino, e poi si sofferma su un oggetto che, sempre in raccordo con il movimento dello sguardo del lettore, entra in campo da destra: il fotografo. Da un campo medio e oggettivo siamo quindi passati ad una ad un PA semi-soggettivo. Con il cambio di riga lo sguardo del lettore inverte l’asse dell’osservazione, per poi tornare alla continuità della panoramica precedente, seguendo l’uscita di scena del protagonista.

Si noti come lo sfondo, anche se serve a caratterizzare cronologicamente gli ambienti (ma questo compito è assunto, più che altro, dagli abiti) quasi non c’è, schiacciato com’è dai personaggi che fisicamente quasi premono contro i bordi della vignetta, portati in un PPP più che dall’inquadratura dal tratto, che si inspessisce a delinearne i contorni, li rende tridimensionali, li separa dallo sfondo sfumato e bianco, quando i neri pieni ,invece, caratterizzano gli attori.

E quando l’attenzione deve concentrarsi ancora di più sulla mimica e sulle parole, quasi assenti nella tavola presentata precedentemente, lo sfondo scompare del tutto, come nella sequenza che apre quest’opera.

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Se, insomma, i precedenti riferimenti di De Luca erano, da una parte, il teatro e, dall’altra, l’incisione e la pittura, spesso anche di marca futurista o comunque avanguardista, qui il referente sembra essere il cinema d’animazione, con i suoi fondali statici, sintetici, spesso addirittura minimalisti sullo sfondo dei quali i personaggi si muovono più vivi, più “carnali” del mondo che li circonda.

Anche se De Luca non rinuncia del tutto alla proprie specifiche, ma con una parsimonia ed un controllo che sottomettono il pezzo di bravura alle necessità della narrazione, come quando, nella tavola seguente, per separare Giannino dallo sfondo delle sorelle, nella foto che è appena stata scattata, usa per il ragazzo un tratto pieno, chiuso, mentre per le sorelle un puntinato sfumato, escamotage questo, atto a sottolineare una distanza più psicologica, percettiva che fisica dei piani, più volte utilizzato dall’autore, come possiamo per esempio vedere Qui, ma in maniera molto più massiva (effetto rafforzato, nello specifico del caso citato, dall’ulteriore contrasto PP/colore-Sfondo/BN).

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Confrontandosi con un registro comico, De Luca adatta anche il proprio modo di disegnare.  Le espressioni sono deformate, caricaturali, così come anche le proporzioni dei corpi, le posture (ecco, di nuovo, il cartoon) ma in un certo senso anche più realistiche di quelle naturalistiche ma spesso forzatamente teatrali e statiche delle opere precedenti, in cui il movimento era dato dalla ripetitività delle immagini, dalla frammentazione delle azioni, ma non dalla mimica, lì statica e raggelata nell’attimo, qui viva, vibrante, mobile.

In alcuni lavori successivi di De Luca i due estremi della sua arte si incontreranno felicemente, dando vita ad alcune delle sue più interessanti sperimentazioni, come in Paulus (1987) e, ancor di più nella storia breve Alla scoperta del pianeta Terra (1991), in cui il tratto infantilizzato, quasi perfettamente mimetico, e quello realistico (ma senza ossessione, come si può vedere dai corpi, quasi alla Duilio Cambellotti, fisicamente deformati dalla violenza e dal moto) dialogano continuamente e senza attriti.

Ultimo ma non ultimo elemento da sottolineare è l’uso che fa De Luca dello strumento del lettering. Se già altrove ci aveva abituato ad una reinvenzione continua del balloon, qui l’uso che fa del lettering, pur se meno innovativo, è altrettanto sorprendente.

De Luca distingue almeno tre tipi di approcci o stili: la scrittura elegante, calligrafica e scolastica usata da Giannino per il diario (qui riportata nelle didascalie e che verrà di nuovo utilizzata nella già citata storia del 1991), quella più schizzata, abbozzata, nervosa e veloce che le sua sorelle usano per vergare le foto dei rispettivi spasimanti (vedi foto sotto)

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e il lettering classico, fumettistico, verbale ed onomatopeico che, comunque, nelle varianti utilizzate da Da Luca, riesce ad essere comunque omogeno al segno alla narrazione e cioè, plastico, dinamico, emozionale e pieno di guizzi.

***

[1] Ecco l’incipit del romanzo:

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Ecco fatto. Ho voluto ricopiare qui in questo mio giornalino il foglietto del calendario d’oggi, che segna l’entrata
delle truppe italiane in Roma e che è anche il giorno che son nato io, come ci ho scritto sotto, perché gli amici che
vengono in casa si ricordino di farmi il regalo.
Ecco intanto la nota dei regali avuti finora:
l.° Una bella pistola da tirare al bersaglio che mi ha dato il babbo;
2.° Un vestito a quadrettini che mi ha dato mia sorella Ada, ma di questo non me ne importa nulla, perché non è un
balocco;
3.° Una stupenda canna da pescare con la lenza e tutto l’occorrente e che si smonta e diventa un bastone che mi ha
dato mia sorella Virginia, e questo è il regalo che mi ci voleva, perché io vado matto per la pesca;
4.° Un astuccio con tutto l’occorrente per scrivere, e con un magnifico lapis rosso e blù, regalatomi da mia sorella
Luisa;
5.° Questo giornalino che mi ha regalato la mamma e che è il migliore di tutti.
Ah sì! La mia buona mamma me ne ha fatto uno proprio bello, dandomi questo giornalino perché ci scriva i miei
pensieri e quello che mi succede. Che bel libro, con la rilegatura di tela verde e tutte le pagine bianche che non so
davvero come farò a riempire! Ed era tanto che mi struggevo di avere un giornalino mio, dove scriverci le mie memorie,
come quello che hanno le mie sorelle Ada, Luisa e Virginia che tutte le sere prima d’andare a letto, coi capelli sulle
spalle e mezze spogliate, stanno a scrivere delle ore intere.
Non so davvero dove trovino tante cose da scrivere, quelle ragazze!
Io, invece, non so più che cosa dire; e allora come farò a riempire tutte le tue pagine bianche, mio caro giornalino?
Mi aiuterò con la mia facilità di disegnare, e farò qui il mio ritratto come sono ora all’età di nove anni finiti.

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[2] Inoltre, fra gli attori dello sceneggiato televisivo ritroviamo, nei panni del direttore del collegio Stanislao, detto “Calpurnio”, quel sergio Tofano, papà de Il signor Bonaventura che proprio nel 1908 iniziò, con lo psedudonimo di Sto la propria collaborazione con Il giornalino della Domenica diretto da Vamba. Lo stesso Tofano, nel 1943, aveva diretto un film ispirato allo stesso personaggio dal titolo di Gian Burrasca

[3] Da notare la citazione del trenino abbozzato sotto il titolo. Un  elemento che ritroveremo nel corso della storia, disegnato con tratto maggiormente realistico

trenoma che qui sembra voler ricordare un’altra delle illustrazioni di Vamba:

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