Il sistema fumetto di Thierry Groensteen Parte 2

Seconda parte dell’introduzione all’imprescindibile saggio di Thierry Groensteen: “Il sistema fumetto”, pubblicato dalla Proglo e ordinabile presso il sito dell’editore per soli 13 euro. Un libro importante finalmente tradotto in italiano. -AQ 

Parte 1
Parte 3

Thierry Groensteen

Una specie narrativa a dominante visiva

“Una tradizione logocentrista millenaria ci ha abituato a concepire un rapporto di sovranità della parola sull’immagine”, ricorda giustamente Michel Thévoz1. In realtà questa tradizione ha dato origine a due importanti conseguenze che forse non sempre sono state distinte a sufficienza l’una dall’altra, sebbene riguardino una la semiologia generale, l’altra la narratologia:

a / La lingua è stata presa come modello per qualsiasi tipo di linguaggio;

b / La letteratura romanzesca è quasi universalmente considerata il modello di tutte le forme narrative (questa seconda conseguenza è in parte, ma solo in parte, un corollario logico della prima).

Storicamente fondata, quest’ultima concezione è ormai diventata teoricamente insostenibile. Il fatto che la letteratura scritta (anch’essa preceduta e un tempo accompagnata dalla letteratura orale) abbia preceduto di diversi millenni l’avvento quasi simultaneo del cinematografo e del fumetto moderno non le conferisce nessun monopolio o privilegio di diritto, ma semplicemente un’anteriorità di fatto. In altre parole non possiamo più confondere genere narrativo e letteratura, esposti come siamo a una serie di media che ricorrono più o meno tutti a strutture di racconto.

Il genere narrativo, con l’insieme delle sue categorie (intrigo, diegesi, situazioni, temi, conflitti drammatici, personaggi, ecc.), esiste in sé e può essere analizzato come tale, in quanto sistema di pensiero, maniera di appropriarsi del mondo, attività immemorabile dell’essere umano. È trasversale ai diversi sistemi semiotici e può incarnarsi indifferentemente in ognuno di essi (o piuttosto: in modo diverso senza però rinnegare nulla della propria tecnicità, che altro non è se non l’arte di raccontare). In questa sede sosterremo quindi, con Paul Ricœur2, che esistono un genere narrativo e più specie narrative: romanzo, film, opera teatrale, ma anche fumetto, fotoromanzo e perché no balletto e opera, senza trarre conclusioni affrettate sulle specie che verranno domani dai progressi della tecnologia (perché anche fumetto e cinema hanno dovuto la loro nascita tardiva – rispetto alla letteratura – solo all’evoluzione delle tecniche; per il fumetto si è trattato dell’invenzione della litografia)3…Naturalmente ogni specie narrativa propone al pubblico una modalità diversa di esposizione al racconto e dispone di competenze proprie. Ecco quindi che, come scrive Ricœur,: “Nessuna arte mimetica è stata tanto lontana nella rappresentazione del pensiero, dei sentimenti e del discorso quanto il romanzo.”4 Da parte sua il film ha altri vantaggi, e anche il fumetto ha i suoi, come dimostra a sufficienza il fatto che la sua popolarità sia ancora intatta dopo un secolo e mezzo di vita, nonostante la concorrenza del cinema e di tutti i nuovi tipi di immagine nati da ciò che Régis Debray chiama “videosfera”.

Töpffer vedeva nel testo e nell’immagine due componenti pari del fumetto, che definiva a partire dal suo carattere misto. Questo punto di vista, ai suoi tempi ancora sostenibile, oggi non lo è più. Infatti coloro che riconoscevano alle parole uno status uguale, nell’economia del fumetto, a quello dell’immagine, partono dal principio che la scrittura è il veicolo privilegiato del racconto in generale. La molteplicità delle specie narrative ha tuttavia reso obsoleto questo postulato.

Considerare che il fumetto è essenzialmente il luogo di un confronto tra parole e iconicità è, secondo me, una falsità teorica che sfocia in un vicolo cieco5. È necessario precisarlo? Se ritengo indispensabile che all’immagine venga riconosciuto uno status preminente, non è perché, salvo rare eccezioni, essa occupa nei fumetti uno spazio più importante rispetto a quello riservato alla scrittura. La sua predominanza nell’ambito del sistema dipende piuttosto dal fatto che la maggior parte della produzione del senso si effettua per suo tramite.

Alcuni accoglieranno sicuramente questa affermazione con scetticismo. Secondo Lessing il pensiero occidentale ha infatti a lungo considerato antonimiche le due categorie del “racconto” e dell’“immagine”, a partire dalla distinzione dello spazio e del tempo. Dal momento che l’immagine cinematografica è un’immagine-tempo, essa non suscita lo stesso imbarazzo teorico dell’immagine fumetto. Delle due grandi forme del racconto per immagini è sicuramente il fumetto che pone più problemi sia ai letterati che agli studiosi di arti plastiche. Tuttavia l’apparente irriducibilità dell’immagine e del racconto si risolve dialetticamente attraverso il gioco della successione delle immagini e della loro coesistenza, della loro concatenazione diegetica e della loro distribuzione panoptica. In questo gioco abbiamo riconosciuto il fondamento stesso del mezzo. Come vedremo, è attraverso la collaborazione tra l’artrologia e la spaziotopia che l’immagine sequenziale si fa pienamente narrativa, senza avere necessariamente bisogno dell’aiuto delle parole.

Gli anni Sessanta e Settanta hanno assistito, bisogna ammetterlo, a “un trasferimento massiccio delle nozioni linguistiche nel campo dell’analisi delle arti visive: parliamo allora comunemente di enunciati pittorici, di sintagmi filmici, ecc.”. Questa applicazione estesa dei concetti linguistici si basa sull’idea che “la rappresentazione (può) solo essere codificata e la contemplazione di una rappresentazione figurativa (è) una lettura”6. A questa idea continuano tuttavia a opporsi alcuni teorici che difendono una concezione più restrittiva (integralista?) della nozione di narrazione e che si rifiutano di estenderla alle arti visive. Jean-Marie Schaeffer è uno dei difensori più convincenti di questo partito dell’ortodossia linguistica. A questo rifiuto si è, come prima cosa, tentati di opporre il fatto che esso va manifestamente contro ogni intuizione, contro l’esperienza comune: per il destinatario di un film o di un fumetto infatti non c’è alcun dubbio che si tratti di una sciocchezza! Si ricorderà poi che lo stesso processo di generazione di queste opere comincia generalmente con una fase di adattamento. Tuttavia Schaeffer sostiene proprio che “la narrazione non è data nelle o dalle immagini (mentre nel caso di una struttura verbale, essa è data nella e dalla concatenazione delle frasi), ma è contemporaneamente a monte dell’opera (in quanto programma narrativo) e a valle (in quanto ricostruzione da parte dello spettatore)”7.

Si ravvisa una certa quantità di sofismo in questa posizione, che ammette la narrazione a monte e a valle ma che nell’opera stessa rifiuta di riconoscerne il ruolo attivo! A questo punto ci si chiede per quale miracolosa alchimia cognitiva il lettore, o lo spettatore, riuscirebbe a ricostruire un racconto se questo non fosse già contenuto nell’opera alla quale è confrontato e attraverso cui la narrazione si compie. La risposta di Schaeffer è che lo spettatore estrapola un racconto “a partire da ciò che (l’immagine) rappresenta grazie a ciò che mostra”8. Secondo lui “raccontare una storia nel primo senso del termine non implica automaticamente essere un racconto nel senso tecnico del termine, quindi un atto enunciativo assunto da un narratore”. E definisce così i due tratti essenziali che caratterizzerebbero la narrazione in quanto atto enunciativo: “La specificità dei nessi logici che realizzano l’integrazione reciproca delle proposizioni elementari grazie a nessi consecutivi (a dopo b dopo c dopo…) e di causalità (…c perché b perché a)”, e il fatto che “le asserzioni narrative devono essere rapportate a un locutore; ne deriva che qualsiasi narrazione implica un narratore”9.

Questa dimostrazione, ancora una volta, è sintomatica dell’egemonia della linguistica sulla semiotica generale10 e pertanto dell’applicazione troppo spesso meccanica dei dogmi della narratologia letteraria a qualsiasi altra forma di racconto. La linguistica sminuisce sempre la categoria del “racconto” dietro insistenza della “narrazione” e riconosce la presenza di un narratore solo a determinati marcatori intrinseci del linguaggio verbale. Di conseguenza può solo screditare i racconti in immagini in quanto forme narrative: sentenza è emessa ancor prima di aver preso in considerazione i fatti.

Invece di arrivare alla conclusione che “è bene restringere l’applicazione della nozione tecnica di ‘narrazione’ all’ambito verbale”11, personalmente penso: 1 / che è urgente rivedere una nozione tecnica che non è più soddisfacente perché in evidente contraddizione con l’esperienza del lettore-spettatore moderno; 2 / che è altrettanto necessario creare concetti specifici per rendere conto con precisione dei “nessi logici” extralinguistici, che “realizzano l’integrazione reciproca delle proposizioni elementari” nel racconto per immagini.

Nell’argomentazione di Schaeffer vi è tuttavia un punto che può essere accolto e che si applica alla perfezione al fumetto: l’insistenza sulla cooperazione attiva attesa dal lettore. Il fumetto infatti è un genere fondato sulla reticenza. Non solo le immagini, immobili e silenziose, non hanno lo stesso potere illusionista delle immagini filmiche, ma la loro concatenazione, lungi dal produrre una continuità che imita il reale, non propone altro al lettore se non un racconto pieno di intervalli, che sembrano altrettante interruzioni di senso. Ma se questa doppia reticenza richiede una “ricostruzione da parte dello spettatore”, il racconto “da ricostruire” è comunque disposto nelle immagini, veicolato dal gioco complesso della sequenzialità. Del resto, stando a quanto detto da François Dagognet, è tipico dell’arte in generale costruire “il sovrareale con l’ellittico”12. Il lettore di fumetti sa che, dal momento in cui si proietta nella finzione (l’universo diegetico), dimentica, fino a un certo punto, il carattere frammentato e discontinuo dell’enunciazione. Di seguito mi permetto di riprendere quanto ho scritto in altra sede riguardo a questo illusionismo proprio dell’arte narrativa del fumetto:

“Le vignette non fanno altro che riflettere dei bagliori del mondo presupposto in cui si svolge la storia, tuttavia, essendo quest’ultimo presumibilmente continuo e omogeneo, tutto accade come se il lettore, una volta entrato in questo mondo, non uscisse mai più dall’immagine che gli ha aperto l’accesso. Il superamento dei quadri diventa un’operazione meccanica e in larga parte inconsapevole, mascherata dall’investimento (l’assorbimento) nel mondo virtuale postulato dal racconto. La diegesi è questa immagine virtuale, fantasmatica, che comprende tutte le vignette, le trascende, e che il lettore può abitare. Se, utilizzando il termine di Pierre Sterckx, posso nidificare in una vignetta, è perché, in cambio, ogni immagine finisce per rappresentarne metonimicamente la totalità di questo mondo. (…) … la molteplicità e la distribuzione delle immagini, l’ubiquità dei personaggi fanno sì che il fumetto apra veramente le porte su un mondo consistente, che mi persuado tanto più facilmente di poter abitare che (…) non smetto, leggendo, di entrarvi e di uscirvi.”13

Riassumendo, il racconto è probabilmente sincopato, ma mi proietta in ogni momento in un mondo che si presuppone consistente; ed è questa continuità prestata al mondo della finzione che mi permette, in cambio, di sopperire senza sforzi alle interruzioni della narrazione.

Cose simili sono state dette da tanti appassionati del fumetto. Così afferma Pierre Fresnault-Deruelle: “… il fascino che il fumetto può operare sul lettore sta, tra gli altri elementi, nella capacità di farci fantasticare tutt’altra cosa rispetto a ciò che mostra esattamente: c’è un mormorio dei segni afoni (proprio come c’è un brulichio dell’immobile) dietro queste vignette sapientemente allineate14”; o Federico Fellini: “Il fumetto, più del cinema, beneficia della collaborazione dei lettori: si racconta loro una storia che raccontano a se stessi; secondo il proprio ritmo e la propria immaginazione, andando avanti e indietro.”15

Come ho assicurato poco fa, nel fumetto la narrazione passa prima e principalmente (salvo eccezioni) dalle immagini. André Gaudreault ricorda che “per Platone la mimèsis non è, contrariamente a quanto si dice troppo spesso, una categoria opposta alla diègèsis, ma una delle forme di quest’ultima”16. In realtà in un racconto per immagini, film o fumetto che sia, ogni elemento, visivo, linguistico o sonoro, partecipa in toto alla narrazione. Christian Metz è stato chiarissimo su questo punto: “…in un film narrativo tutto diventa narrativo, persino la grana della pellicola e il timbro delle voci.”17 Il discorso che segue vale sia per il fumetto che per il cinema:

“…la terminologia è stata fissata principalmente con riferimento a narrazioni linguistiche, in particolare romanzi. Qui le codificazioni narrative si sovrappongono a un primo strato di regolazioni forti, quelle della lingua; è per queste che si parla di enunciazione, poiché il termine è linguistico. Di riflesso, al bisogno, si può utilizzare “narrazione” al livello superiore. Il film narrativo tuttavia non poggia su nulla, non si ammassa su qualche equivalente della lingua; è se stesso, o piuttosto crea tutto ciò che, in sé, sarà dell’ordine del “linguaggio”. Mentre l’enunciazione diventa narrativa, la narrazione si fa carico dell’enunciazione intera.”18

In queste pagine desidero contribuire a chiarire la nozione stessa di racconto per immagini a partire dal caso specifico del fumetto, di cui dico fin d’ora che si tratta di una specie narrativa a dominante visiva. Ad ogni modo mi sembra che Paul Ricœur definisca la prospettiva giusta quando separa l’istituzione del racconto dalle sue diverse manifestazioni concrete, situando queste ultime su un piano di uguaglianza teorica. Questa petizione di principio apre il campo più vasto agli studi comparatisti e all’approfondimento dei sistemi semiotici nella loro rispettiva singolarità.

L’introvabile definizione19

Le definizioni del fumetto che si trovano nei dizionari e nelle enciclopedie, come anche nelle opere specializzate, sono in genere insoddisfacenti. E non è difficile comprenderne le ragioni.

Queste definizioni sono di due tipi. Le prime, spesso lapidarie, sono da attribuire a un approccio essenzialista e tentano di racchiudere in qualche formula sintetica l’“essere” del fumetto. Un’impresa probabilmente destinata al fallimento se consideriamo che, lungi dal verificare la povertà espressiva e l’infantilismo intrinseco a lungo attribuitigli, il fumetto si basa su un insieme coordinato di meccanismi che partecipano alla rappresentazione e al linguaggio, e che questi meccanismi governano a loro volta numerosi e disparati parametri, la cui interazione dinamica assume svariate forme da un fumetto all’altro. Qualunque sia la sua riuscita sul piano artistico, bisogna riconoscere che un fumetto:

a / è per forza di cose (dal punto di vista della sua costituzione) un edificio sofisticato;

b / attualizza solamente alcune delle potenzialità del mezzo, a scapito di altre che vengono sminuite o escluse.

Cercare l’essenza del fumetto significa quindi essere certi di trovare non una penuria, bensì una profusione di risposte. Nel brillante saggio di Alain Rey intitolato Les Spectres de la bande20, a pagina 102 si legge che “l’essenziale” del fumetto sta nello “spazio organizzato che opera i suoi trucchi tra le due dimensioni del supporto e la suggestione percettiva del mondo”; a pagina 104 che “lo scambio tra i valori testuali e figurali costituisce l’essenza stessa del fumetto”; a pagina 200 che ormai il mezzo si caratterizza innanzitutto per “una lotta creatrice tra figurazione e narratività, non tra immagine e testo, l’ultimo dei quali assume solo un aspetto, il più superficiale, del racconto”. Tanti suggerimenti diversi e fecondi, e molto probabilmente non si avrebbero grandi difficoltà nel trovare in questo libro una mezza dozzina di ulteriori formule analoghe che racchiudono una parte di verità.

Si trovano tuttavia anche definizioni del fumetto più lunghe e articolate, più conformi alla specifica di una definizione: “Enunciazione degli attributi che distinguono una cosa, che le appartengono intrinsecamente e che ne escludono altre” (Littré). Queste definizioni differiscono per il numero e l’identità degli attributi considerati pertinenti. Come vedremo attraverso alcuni esempi chiarificatori, i ricercatori non hanno certo evitato di confrontarsi a tale riguardo.

L’opera di David Kunzle, The Early Comic Strip, inaugurava una serie che voleva coprire tutta la storia del fumetto. Questo primo tomo abbraccia il periodo pretöpfferiano, dal 1450 al 1825, raggruppando non solo l’iconografia popolare spesso anonima, ma anche cicli di pitture e di stampe di artisti come Callot, Rubens, Greuze e Hogarth, per citarne solo alcuni. Kunzle formula “quattro condizioni” affinché queste forme di racconto per immagini possano essere considerate il fumetto ante litteram o, se lo si preferisce, assimilate a posteriori:

“Secondo la mia definizione un «fumetto», non importa di quale epoca o paese, deve rispettare quattro condizioni: 1 / Deve presentarsi come una sequenza di immagini separate; 2 / Deve esserci una preponderanza dell’immagine sul testo; 3 / Il fumetto deve essere concepito per la riproduzione e comparire su un supporto stampato, vale a dire un supporto destinato alla diffusione di massa; 4 / La sequenza deve raccontare una storia che sia al contempo morale e attuale”21

Bill Blackbeard, altro eminente ricercatore americano, è energicamente insorto contro queste opinioni. Ricusando, non sempre in buona fede, tutte le condizioni proposte da Kunzle, Blackbeard formula da parte sua la seguente definizione:

“Un racconto drammatico o una serie di aneddoti correlativi riguardo personaggi ricorrenti e riconoscibili pubblicato/a regolarmente, a episodi e senza un termine prestabilito, e narrato/a sotto forma di disegni successivi che comprendano spesso dialoghi racchiusi in nuvolette o loro equivalenti, nonché un testo narrativo generalmente minimo.”22

Queste due definizioni sono, secondo me, totalmente inaccettabili. Entrambe sono ugualmente normative e interessate, tagliate su misura per sostenere un taglio storico arbitrario. Per esempio, la terza condizione di Kunzle serve solo a giustificare che egli abbia scelto l’invenzione della stampa come punto di partenza della sua Histoire de la bande dessinée. La definizione di Blackbeard invece, che difende la tesi di un’origine americana, si applica solo al fumetto stampato ed è destinata a escludere dal campo del fumetto tutto ciò che è anteriore all’apparizione di Yellow Kid nel 1896.

In Francia ricordiamo solo che Antoine Roux aveva proposto una definizione in sei punti ne La Bande dessinée peut être éducative (Éd. de l’École, 1970), definizione spazzata via (anche in questo caso in parte ingiustamente) con un manrovescio da Yves Frémion ne L’Abc de la bd, dove si legge: “In dieci anni nessuno di questi criteri, pure sensati a priori, ha resistito alla storia.”23

La difficoltà di elaborare una definizione valida dell’oggetto fumetto, vale a dire una definizione che permetta di discriminarlo da ciò che è altra cosa senza escludere nessuna delle sue manifestazioni storiche, comprese quelle di confine e sperimentali (pensiamo ad esempio alle opere di Jean Teulé e di Martin Vaughn-James la cui ammissibilità può sembrare problematica), è stata ben indicata da Pierre Couperie già nel 1972:

“Il fumetto dovrebbe essere un racconto (ma non è per forza un racconto…) costituito da immagini create dalla mano di uno o più artisti (si tratta di eliminare cinema e fotoromanzo), immagini fisse (a differenza del cartone animato), multiple (contrariamente al cartone animato) e giustapposte (diversamente dall’illustrazione e dal romanzo illustrato…). Tuttavia questa definizione vale ancora alla perfezione anche per la colonna Traiana e gli arazzi di Bayeux…”24

Couperie inoltre aggiunge che né la suddivisione delle immagini, né l’utilizzo della nuvoletta, e né tanto meno la modalità di diffusione sono criteri determinanti.

La diversità di ciò che in passato si è rivendicato e che oggi si rivendica, a diverse latitudini, come fumetto è talmente grande che è diventato quasi impossibile adottare alcun criterio di definizione universalmente verificato. Ne darò dimostrazione per due dei tratti pertinenti spesso eretti a elementi di dottrina, ovvero:

a / l’inserimento, nell’immagine, di enunciati verbali;

b / la permanenza, con lo scorrere delle vignette, di almeno un personaggio identificabile (criterio adottato in particolar modo da Blackbeard).

Nonostante l’uso statisticamente molto superiore, questi tratti devono essere considerati caratteristiche contingenti, che risentono di numerose eccezioni e che, di conseguenza, possono solo portare all’elaborazione di definizioni riduttive.

Innanzitutto ecco qualche autore che ha prodotto fumetti “muti”, cioè privi di enunciati verbali, dialoghi o testi narrativi (detti recitativi) che siano. Giunta dalla Germania, questa particolare forma narrativa si è diffusa alla fine del XIX secolo con le pantomime di Caran d’Ache, K-Hito, e A. B. Frost, per citare solo un francese, uno spagnolo e un americano. Opere “senza parole” si trovano poi in tutte le categorie del fumetto: serie di strisce giornaliere e/o di tavole indipendenti (Adamson, di Oscar Jacobsson, 1920; The Little King di Otto Soglow, 1931; Vater und Sohn di e.o. plauen, 1934; Henry di Carl Anderson, 1934; Globi di J. K. Schiefe e R. Lips, 1934; Professeur Nimbus di André Daix, 1934; M. Subito di Robert Velter, 1935; Max l’explorateur di Guy Bara, 1955; ecc.); racconti completi pubblicati sulla stampa illustrata (qui gli esempi abbondano; tra le opere di successo, menzioniamo soltanto Allô! il est vivant di Raymond Poïvet, 1964; Sanguine di Philippe Caza, 1976; diversi episodi di Ken Parker di Milazzo e Berardi a metà degli anni Ottanta; Magic Glasses di Keko, 1986; o ancora gli sketch del tedesco Sperzel, come abbiamo potuto leggerli questi ultimi anni prima in U-Comix e poi in Kowalski); e infine gli album, da Milt Gross (He done her wrong, 1930) fino a Thierry Robin (La Teigne, 1998), passando per Moebius (Arzach, 1975), Crepax (La Lanterne magique, 1979), Ana Juan (Requiem, con Gordillo, 1985), Avril e Petit-Roulet (Soir de Paris, 1989), Hendrik Dorgathen (Space Dog, 1993), Alberto Breccia (Dracula, Dracul, Vlad ?, bah…, 1993), Fabio (L’Œil du Chat, 1995), Lewis Trondheim (La Mouche, 1995), Anna Sommer (Remue-ménage, 1996) e Peter Kuper (The System, 1997). Questa lista ovviamente non è per nulla esaustiva25.

La permanenza – e la vitalità attuale – di questa tradizione non impediscono al ricercatore di affermare che “ciò che distingue un fumetto da un ciclo di affreschi è il fatto che, nel fumetto, le parole scritte sono fondamentali per la prosecuzione della storia”26. Dettaglio divertente – e significativo della sua cecità –, l’autore produce in seguito, a sostegno delle proprie affermazioni, una tavola di Krazy Kat in cui i testi sono stati nascosti, a quanto pare senza accorgersi che, sfortunatamente per lui, la narrazione, sviluppata in undici immagini, resta perfettamente intelligibile nonostante l’amputazione!

Quanto alla presenza di un personaggio stabile, ci sono diversi modi per aggirarla. Ne citerò sei:

  1. La prima è radicale: è sufficiente che nel racconto non figuri nessun essere umano; in questo caso la storia ha come unico motore le metamorfosi di un panorama o di una popolazione di oggetti. Esempi: La Cage di Martin Vaughn-James (Toronto, 1975; ed. franc. 1986), Intérieurs di Régis Franc (1979), Petite Histoire de l’Amérique di Robert Crumb (1979).
  2. Il secondo caso può essere considerato un’attenuazione del primo. Sebbene il personaggio stabile non venga mostrato, la sua presenza è suggerita “indirettamente” dall’utilizzo di una narrazione verbale in prima persona, e/o come nucleo percettivo supposto delle immagini (procedimento designato nel cinema con l’espressione di “camera soggettiva”).

Il contributo di André Juillard al volume collettivo Le Violon et l’archer (1990) illustra questo secondo caso. Ricordiamo anche la celebre tavola di McCay, nei suoi Dreams of the Rarebit Fiend, in cui il protagonista assiste alla propria sepoltura dal fondo della bara (serie pubblicata dal 1904 al 1911, poi ripresa nel 1913; per quanto io sappia, la data precisa della tavola in questione non viene menzionata in nessuna edizione). Un caso simile è quello in cui il personaggio, senza filtrare la percezione né condurre il racconto, rimane semplicemente sempre fuori campo (lo sentiamo parlare senza mai vederlo) come in Calma chicha (1985), racconto breve dello spagnolo Marti.

  1. Succede anche che il personaggio, seppur presente nell’immagine, non sia identificabile fisicamente perché i tratti che caratterizzano la sua identità (e in primo luogo il viso) vengono sistematicamente elusi. L’album Carpets’ bazaar di François Mutterer e Martine Van (1983) realizza questa assurdità. Un esempio un po’ diverso sarebbe quello di Un flip coca di Edmond Baudoin (1984), in cui i tratti dell’eroina vengono svelati al lettore solo nelle ultime tre pagine del libro (fino a quel momento veniva rappresentata di schiena o con il viso coperto dai capelli).
  2. La “stabilità” del personaggio può ancora essere smentita dal trattamento grafico riservatogli e dagli incessanti cambiamenti del suo involucro corporeo. Un album sperimentale come John et Betty di Didier Eberoni (1985) ha proposto un’approssimazione di tale procedimento. René Pétillon si è buttato sull’umoristico raffigurando il “capo dei servizi segreti di Terra (…) come uno dei suoi mutanti di classe b14, tipo instabile, che cambia idea in continuazione” (Bienvenue aux terriens, 1982, p. 25).
  3. Il personaggio come individualità riconoscibile si dissolve anche quando tutti i personaggi si assomigliano tra loro, minando l’idea stessa di identità. In una popolazione come quella dei Puffi, i tratti fisici che ne permettono l’individuazione sono molto rari (inizialmente riservati a Grande Puffo, a Quattrocchi e, ovviamente, a Puffetta). In questo caso il fatto di avere un nome (sotto forma di epiteto qualificativo: Puffo brontolone, Puffo poeta, Puffo burlone, ecc.) permette al racconto di fare propria quella condizione che Bruno Lecigne ha giustamente battezzato ipergemellarità. Anche alcuni racconti di Francis Masse e di Florence Cestac si sono molto avvicinati a questa totale indifferenziazione dei corpi.

  4. Rimane il caso del fumetto in cui gli “attori” si rinnovano di vignetta in vignetta, vedendo il proprio ruolo limitato a un’unica apparizione. Diversi lavori del gruppo Bazooka, così come le cinque tavole di Crumb intitolate City of the future (1967), illustrano questo procedimento. Il primo capitolo di C’était la guerre des tranchées di Jacques Tardi (pubblicato su (à suivre) no 50 del marzo 1982) non ne è troppo dissimile. La struttura polifonica infatti attesta la natura collettiva di una questione (l’assurdità della guerra) che non era il caso di personalizzare, pena il ridimensionamento del problema 27.

Due criteri dogmatici, adottati dalla maggior parte delle definizioni comuni del fumetto, devono dunque essere ricusati. La difficoltà incontrata non è insita nel fumetto, che si pone in termini pressoché identici per la maggior parte, se non la totalità, delle forme artistiche moderne, come il cinema, e delle forme la cui evoluzione, nel corso del secolo, ha posto fine alla definizione tradizionale (romanzo, pittura, musica…). Ad esempio, Roger Odin dimostra che è quasi impossibile enunciare una definizione di cinema che valga per il cartone animato come per tutte le forme di cinema sperimentale o “allargato”. L’aporia cui il semiologo inevitabilmente giunge viene così descritta:

“Con che diritto escludere dal cinema queste produzioni quando invece i propri autori le presentano in modo esplicito come “film”? Il fatto che queste produzioni non rientrino nella nostra definizione dell’oggetto “cinema” è forse una giustificazione sufficiente a escluderle? Se no, bisogna rivedere la nostra definizione di cinema in un senso ancora più generalizzante in modo da poter integrare questi controesempi? Ma allora, dove fermeremo la generalizzazione: all’assenza di pellicola? All’assenza di schermo? All’assenza di proiettore? In questo modo non si arriverà forse a una definizione che non ci dirà più niente del suo oggetto?”28

Roger Odin propone di superare l’approccio immanente del cinema per prendere in considerazione i suoi usi sociali. Considerando non più l’“oggetto cinema”, ma il “campo cinematografico” egli conclude (p. 57) che “gli oggetti cinematografici sono oggetti definibili, ma variabili nel tempo e nello spazio”.

Parte 1
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1 Détournement d’écriture, Paris, Minuit, “Critique”, 1989, p. 72.

2 Prefazione a André Gaudreault, Du littéraire au filmique. Système du récit, Paris, Klincksieck, “Méridiens”, 1988, p. ix-xiii. Per Ricœur, la “virtù principale” di quest’opera “è quella di riportare il film allo stesso livello della scena, mentre riporta la scena allo stesso livello dello scritto, affrancando così la critica del cinema dalla tutela – decisamente involontaria – della critica letteraria che tiene per sé il diritto di primogenitura”.

3 Per maggiori dettagli, cfr. Thierry Groensteen e Benoît Peeters, Töpffer: l’invention de la bande dessinée, Paris, Hermann, “Savoir: sur l’art”, 1994, p. 88-93.

4 Temps et récit, t. 2, Paris, Seuil, 1984, p. 132.

5 D’altra parte questo approccio non ha mai smesso di portare acqua al mulino dei detrattori del fumetto. Visto il suo carattere “misto” o “ibrido”, si è fatto presto a pronunciarsi sulla sua bastardaggine e impurità. Come se la collaborazione di immagine e testo avesse per conseguenza ineluttabile di degradarli o comprometterli entrambi.

6 Cfr. Jean-Marie Schaeffer, “Narration visuelle et interprétation”, intervento al Convegno Narration et image fixe (Londra, 17-18 marzo 1995), a oggi ancora inedito. Questo manoscritto di dodici pagine mi è stato trasmesso da Mireille Ribière, organizzatrice del convegno.

7 Ibid.

8 Ibid. Per chiarire questa citazione, è probabilmente utile ricordare che, secondo quanto detto da Schaeffer in persona, “la mostrazione è ciò che un’immagine dà a vedere, mentre la rappresentazione è ciò a cui essa rimanda, ciò a cui si riferisce”.

9 Ibid.

10 Régis Debray sostiene l’esatto contrario quando scrive: “Il logocentrismo ci ha disappreso il corpo. Crediamo spontaneamente che simboleggiare è verbalizzare. E se fosse mimare? Non solo unire il gesto alla parola, ma significare attraverso i gesti”, cfr. “Pourquoi le spectacle ?”, Les Cahiers de médiologie, no 1: La Querelle du spectacle, Paris, Gallimard, 1er sem. 1996, p. 11.

11 Jean-Marie Schaeffer, op. cit. Questa opinione era la stessa sostenuta a suo tempo da Tzvetan Todorov. Cfr. in particolare Les Genres du discours, Paris, Le Seuil, 1978.

12 Cfr. François Dagognet, Écriture et iconographie, Paris, Vrin, 1973, p. 56.

13 Thierry Groensteen, “Plaisir de la bande dessinée”, 9e Art, no 2, Angoulême, cnbdi, janvier 1997, p. 14-21. Cit. p. 20.

14 “Le fantasme de la parole”, Europe, no 720: La bande dessinée, Paris, avril 1989, p. 54-65. Cit. p. 54.

15 “Federico Fellini sage comme la lune”, intervista a Le Soir, Bruxelles, 1 agosto 1990, p. 3 del supplemento maD.

16 Du littéraire au filmique, op. cit., p. 13.

17 Michel Marie et Marc Vernet, “Entretien avec Christian Metz”, Iris, no 10: Christian Metz et la théorie du cinéma, Colloque de Cerisy, Paris, Klincksieck, “Méridiens”, avril 1990, p. 290.

18 Ibid.

19 Il titolo di questa sezione richiama volontariamente un articolo che ho pubblicato in passato nei Cahiers de la bande dessinée con il titolo di “L’introuvable spécificité” (no 70, luglio-agosto 1986, p. 43-47). Questo testo affrontava per la prima volta le questioni nuovamente dibattute in questa sede, partendo da alcuni presupposti che, bisogna ammetterlo, nel frattempo si sono considerevolmente evoluti.

20 Paris, Minuit, “Critique”, 1978.

21 “I would propose a definition in which a “comic strip” of any period, in any country, fulfills the following conditions: 1 / There must be a sequence of separate images ; 2 / There must be a preponderance of image over text ; 3 / The medium in which the strip appears and for which it is originally intended must be reproductive, that is, in printed form, a mass medium ; 4 / The sequence must tell a story which is both moral and topical.” Mia traduzione, (cfr. The Early Comic Strip: Narrative Strips and Picture Stories in the European Broadsheet from c. 1450 to 1825, Berkeley, University of California Press, 1973, p. 2). Un secondo volume, intitolato The Nineteenth Century, è stato pubblicato nel 1990 dalla stessa istituzione. La prima delle quattro condizioni enunciate (“È necessaria una sequenza di immagini separate”) mi sembra corrispondere pressappoco al criterio della solidarietà iconica che proporrò io stesso più avanti. Le alte tre condizioni (preponderanza dell’immagine sul testo, diffusione attraverso un supporto di massa, contenuto al contempo morale e attuale) sono: quanto alla prima, insufficientemente precisata, e quanto alle altre due, facilmente confutabili.

22 “A serially published, episodic, open-ended dramatic narrative or series of linked anecdotes about recurrent identified characters, told in successive drawings regularly enclosing ballooned dialogue or its equivalent and generally minimal narrative text” (mia traduzione) (cfr. “Mislabeled books”, Funny World no 16, Michigan, 1974, p. 41).

23 Casterman, “E3”, Tournai, 1983, p. 46. I criteri terzo e quarto avanzati da Antoine Roux, ovvero “il fumetto è una concatenazione di immagini” e “il fumetto è un racconto ritmato” non hanno, secondo me, perso nulla della loro pertinenza.

24 “Antécédents et définition de la bande dessinée”, in Walter Herdeg et David Pascal (éd.), Comics: l’art de la bande dessinée, Zürich, The Graphis Press, 1972, p. 9-13, passo citato p. 11.

25 Non posso far altro che rimandare alla mia “Histoire de la bande dessinée muette”, 9e Art, cnbdi, Angoulême, no 2, janvier 1997, p. 60-75, et no 3, janvier 1998, p. 92-105.

26 Cfr. David Carrier, “Comics and the art of moving pictures: Piero della Francesca, Hergé and George Herriman”, Word & Image, Londra-Washington DC, Taylor & Francis, vol. 13, no 4, ottobre-dicembre 1997, p. 317. Mia traduzione.

27 Per un’analisi di quest’opera maestra, rimando al bell’articolo di Jacques Samson, “Le champ tardien”, Mieux vaut Tardi, Jacques, Montréal, Analogon, 1989, p. 25-41.

28 Cinéma et production de sens, op. cit., p. 49-50.