Intervista a Naoki Urasawa Parte 1

traduzione di Alberto Choukhadarian

Presentiamo la prima parte di un’intervista a Naoki Urasawa apparsa sulle pagine della rivista Quick Japan #81 del 2008, successivamente tradotta in inglese sul blog gottsu-iiyan dal quale abbiamo attinto. -AQ

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Mi piacerebbe cominciare chiedendoti della tua nuova serie ‘Billy Bat‘. Sinora avevi sempre pubbicato con Shogakukan e il passaggio a Kodansha è stata subito inserita tra le notizie di rilievo di Yahoo! News. Come e cosa è successo?

Bè, non c’è niente di clamoroso dietro (risate). Nel 2001 ’20th Century Boys’ ha vinto il Kodansha Manga Award. Non è inedito che dei manga si aggiudichino un premio messo in palio da un editore concorrente. All’epoca c’erano diverse voci su una mia possibile serie successiva da pubblicare con loro e nel frattempo mi incontravo regolarmente con un editor di Morning (rivista settimanale della Kodansha NTD) .

In ’20th Century Boys’ ci sono un sacco di riferimenti al wrestling professionistico dell’era Showa. Quando ho saputo del tuo primo primo imminente serial per Kodansha, per me è stato come se si fosse svolta una sfida all’ultimo sangue per accaparrarsi un atleta straniero tra la New Japan Pro wrestling e la All Japan Pro Wrestling (risate). Mi sono entusiasmato molto pensando: ‘Ma cosa sta succedendo?!’

(risate) Scusa, ma non c’era davvero nulla di sensazionale.

Comunque, il modo con cui hai iniziato ‘Billy Bat’, con il ‘fumetto nel fumetto’ di stile americano e poi, nel terzo capitolo, facendo andare il protagonista al GHQ in Giappone e facendolo incontrare con Sadanori Shimoyama del noto ‘incidente Shimoyama‘ (Sadanori Shimoyama è stato il presidente delle ferrovie nazionali giapponesi. Il suo corpo fu rinvenuto senza vita, la mattina del 6 luglio 1949, sui binari della linea JR Joban. Shimoyama era misteriosamente scomparso la notte precedente NTD), cattura davvero il lettore e lo intriga al punto di chiedersi: ‘A cosa può portare tutto questo…?’

Quando incontro qualcuno che mi chiede: ‘Ehi, e dopo cosa succederà?’ o mi dice cose del tipo: ‘Non riesco proprio a togliermi quell’episodio dalla testa’, sono felice. E’ la conferma che questo lavoro è una continua benedizione per un mangaka. In ogni caso, io cerco sempre di emozionare il lettore. Per riuscirci sarei perfino disposto a realizzare 24 pagine a colori. E farle è davvero difficile, eh? (risate).

E’ quanto hai appena detto ma, ho come la sensazione che, quando si tratta di manga, guardi al tuo lavoro da un punto di vista più obiettivo.

E’ perché non ho iniziato espressamente per diventare un mangaka. Quando cercavo lavoro ebbi un colloquio con la Shogakukan. Portai con me alcuni lavori da mostrare durante l’incontro, una cosa condusse all’altra e finii per diventare un autore di fumetti. La mia carriera è iniziata così. Non ho alcun desiderio di essere povero (risate). Devo mettere del cibo sulla mia tavola, sebbene al tempo stesso non voglia vendere la mia anima. Dovevo trovare una sorta di equilibrio se avessi voluto ricavarne una professione, giusto? E’ quanto è accaduto per la mia prima pubblicazione in rivista, ad esempio. Mentirei se dicessi che non ero contento sebbene debba ammettere che non mi sentivo nemmeno di dire: ‘Le mie aspirazioni si sono realizzate!’. Però quando il fumetto fu pubblicato di fianco a ‘Hidamari no Ki‘ di Osamu Tezuka pensai che fosse straordinario! So che potrebbe suonare un po’ sprezzante ma ho sempre pensato che fosse perché ero bravo a disegnare. E adesso che il manga è il mio lavoro, l’ho svolto sino ad ora pensando: ‘In che modo posso usare la mia abilità nel disegno come un strumento?’


Vuoi dire che, sin dall’inizio della carriera, hai guardato il tuo percorso dalla prospettiva di un ‘produttore’ anziché di un autore?

Sì, è una definizione che si avvicina molto alla realtà dei fatti. Ho sempre avuto una sensibilità fuori dal comune per la grafica, sin da quando ero un ragazzino. Ad esempio, quando ero ancora alle elementari e guardavo il cartone animato ‘Tommy, la stella dei Giants‘ (Kyojin no Hoshi), ero in qualche modo cosciente di come fosse realizzato da quattro o cinque gruppi diversi di animatori. Mi preoccupavo di aspetti tecnici tipo: ‘Se faccio attenzione alla rotazione degli episodi, la prossima settimana ci sarà il mio gruppo preferito. Quindi ci saranno delle ottime scene, ma saranno in grado di afforntarle al meglio?’. Ero un ragazzino piuttosto irritante (risate).
Per altre serie invece, come ‘Samurai Giants‘ o ‘Heidi‘ mi rendevo subito conto, con una sola rapida occhiata, che erano disegnati dallo stesso autore. Toshio Suzuki dello Studio Ghibli si è sorpreso parecchio quando gli ho detto, l’altro giorno, di come da bambino mi domandavo perché gli stessi autori lavorassero per compagnie di produzione diverse. In ogni caso, forse proprio perchè ero così ossessionato dai credits, mi capitava di ricordare quasi inconsapevolmente i nomi di autentici mostri sacri dell’animazione come Hayao Miyazaki, Isao Takahata e Yasuo Otsuka.

Ecco ma, tra i tanti cartoni basati sui manga, quali sono quelli che conisderi i migliori in assoluto?

Cartoni derivati dai manga…domanda difficile…mi piaceva ‘Dokonjo Gaeru‘, i personaggi e gli sfondi ambientali, soprattutto. E ‘Lupin III‘. Quella scena dell’esplosione fu rivoluzionaria, a suo modo.

Più ti ascolto più ho la sensazione che non poteva esserci una vita diversa da quella al tavolo da disegno per un bambino come sei stato tu (risate). Hai mai pensato di iscriverti ad una scuola d’arte per migliorarti ulteriormente?

Non ci ho mai pensato, a dire il vero. Potevo disegnare tranquillamente senza che nessuno mi insegnasse nulla (risate). Mi chiedevo: ‘Cosa avranno mai da dirsi un mucchio di artisti messi nella stessa stanza?’ (risate). Per l’animazione o per suonare in un gruppo, necessiti di altre persone. Ma per disegnare puoi benissimo essere da solo. Ecco perchè all’università ho scelto economia, un campo che sapevo non sarei riuscito a studiare per conto mio.

Quindi, quale era la professione che ti interessava svolgere?

Vediamo…feci quel colloquio in Shogakukan, ma probabilmente pensavo ad un lavoro come editor in una casa editrice. Anche se credo sarei stato a mio agio anche in un settore differente come le vendite o in qualsiasi altro impiego, forse.

Anche adesso ti immagini a correre in giro facendo vendite?

Sì. E’ ancora parecchio strano per me pensare a come e quando sono arrivato dove sono ora.


Una delle cose che volevo domandarti in quest’intervista era: ‘Chi voleva essere Naoki Urasawa ?’. E’ risaputo che suonavi in una band all’epoca dell’università. Diventare un musicista era un possibile sbocco di carriera per te?

Uno dei miei senpai all’università era membro di una band che si chiamava The Street Sliders, e mi bastò solo guardarli per capire che non sarei mai potuto essere un musicista professionista. Non c’era nulla che potesse ostacolare la passione che ci mettevano nel tentativo di sfondare e avevano uncarisma incredibile.

A differenza di quelli di ‘Tokiwa-so‘ (il noto appartamento in cui hanno vissuto Osamu Tezuka e altri suoi colleghi prima di diventare famosi e che divenne una sorta di atelier artistico per trent’anni, dal 1952 al 1982 NTD) non avevi mai manifestato la chiara intenzione di sfruttare il tuo talento da disegnatore dicendo: ‘Sarò un mangaka!’ e non l’hai nemmeno fatto per i soldi. Mi sembra che il tuo atteggiamento, quello di Urasawa il creatore, nei confronti del manga come perseguimento di una carriera e come medium sia di notevole interesse.

Sì, capisco cosa vuoi dire. Stai toccando il tasto giusto perché da bambino non ho mai pensato fosse molto figo dire: ‘Voglio essere un mangaka.’ Pensavo: ‘Non essere infantile’ anche riguardo alla possibilità concreta di diventare un musicista…quindi, se guardi alla persona che sono diventato nel frattempo, devo dire di non essere cambiato molto da quando frequentavo la scuola elementare.

Fammi capire: stai dicendo che, siccome vedi questo nesso tra chi sei adessso e chi eri da bambino, non noti nessuna contraddizione nell’essere diventato un mangaka?

Sì, penso sia così. Non sono mai stato un tipo che si esalta troppo rispetto alle cose. Ecco perché non sono Kenji di ’20th Century Boys.’ Non ero un ragazzino così fanatico. Se fossi stato un tipo alla Kenji non avrei mai potuto realizzare ’20th Century Boys.’ Perché lui non è in grado di analizzare le cose con oggettività.


C’era una carriera che non avresti perseguito volentieri?

Hmmm. Bé, ricordo sempre alle elementari di aver scritto qualcosa come una sorta di interrogativo a me stesso in cui mi chiedevo se vergognarsi e salire sul solito treno ogni mattina alla medesima ora e andare e venire fosse la cosa giusta da fare…Ma c’era qualcosa di cui sono venuto a capo solo di recente e che non è esattamente la risposta alla domanda … ma la ragione per cui non aspiravo ad essere un mangaka o un musicista è perché tutti i fumetti e la musica che mi piacevano non vendevano (risate). E pensavo che se avessi fatto qualcosa che mi piaceva e non avrebbe venduto neanche quella sarei finito per essere povero (risate). Se si pensa in quel modo si finisce per non fare più nulla. Credo sia una delle ragioni principali.

Capisco. Forse la qualità così elevata è la ragione per la quale i tuoi lavori risaltano nella scia del graduale stallo creativo che pare avere seguito Katsuhiro Otomo e la new wave del manga degli anni settanta e ottanta a lui posteriore.

Bé, non è tanto la qualità quanto una ragione particolare. Otomo mi ha entusiasmato molto almeno un paio di volte, nel corso della mia vita. La sua maestria ha avuto un effetto notevole su di me. Era il momento in cui stavo debuttando ma, il senso del movimento nel lavoro di Otomo in quegli anni mi esaltò in un modo che fatico ancora a spiegare. Non sarebbe stato nemmeno tanto improbabile presentarsi al suo studio a Kichijoji, a quel punto, e chiedergli di essere ammesso a fargli da assistente. Non lo feci, ma è come se lo avessi assistito da lontano per tutto il tempo.

Perché?

Hmm…Mentre c’era tutto questo entusiasmo per il suo lavoro, nello stesso tempo una direzione come quella di Otomo si sarebbe in definitiva tradotta in un cul-de-sac. Comunque, penso che le persone che sono davvero esaltate dalla sua produzione probabilmente si crogiolano nella situazione di cui sopra. Il fanatismo conduce ad una strada senza uscita. Quando si arriva a quello, inizio a chiedermi: ‘c’è davvero felicità in quella sorta di ‘piacere isolato’?’ ed per questo che ho la sana abitudine di mantenere le distanze.

E’ forse questo tuo distanziarsi dal vortice dell’euforia una strategia per restare soggettivo?

No, probabilmente una parola più indicata di soggettivo è riflessivo. Un sacco di persone pensano che io sia uno stratega. Ma non è così. Secondo me, la domanda non è tanto come fare un soggetto migliore basandosi su quello che gli altri pensano possa essere un ‘successo’, quanto chiedermi se quello che sto facendo è un buon lavoro per i miei gusti. Se lo è, allora per me è un successo.


Qualunque cosa tu possa dire, penso sia vero che il mondo intero veda Naoki Urasawa come la vera ‘persona di successo’.

Sai, penso che la gente fraintenda…Le cose sono più belle se ci si può ridere sopra.

Come furono i tuoi anni alle superiori?

Ero nel Track & Field club. Non facevo altro che correre su e giù tutto il giorno. Una cosa che ho capito solo di recente è che chi si iscriveva ai club di baseball, calcio o basket lo faceva solo per giocare, giusto? Il Track & Field invece, era impostato sulla ricerca di conseguire record attraverso un duro allenamento. Quindi, di recente, mi chiedevo: ‘Perchè impiegavo tutto quel tempo correndo?’. Voglio dire, era solo duro e per nulla divertente (risate).

Perché non ti sei iscritto ad un club di baseball o calcio, allora?

Probabilmente perché detestavo i giochi di squadra. Non mi piaceva dovermi preoccupare di altra gente. Ora per fortuna sono un adulto e ho risolto quella questione (risate).

Tra le scuole medie inferiori e superiori i ragazzi hanno la tendenza ad appassionarsi sin troppo alle cose, vero?

E’ un atteggiamento che non sopporto! Durante le gite scolastiche dovevamo formare dei gruppi, giusto? Fui invitato da un gruppo composto essenzialmente da ragazzacci, di quelli che adorano fare gli stupidi in continuazione, sai? Non era il mio genere e rifiutai per unirmi a quelli meno popolari e più pantofolai (risate).

Nei tuoi ultimi anni da adolescente non ha mai avuto la sensazione di condurre una vita troppo solitaria?

Neanche per un secondo!

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